L’affido – Jusqu’à la garde, la recensione
Vincitore del Leone d’Argento per la miglior regia e del premio Opera Prima Luigi de Laurentiis alla 74esima edizione della Mostra dell’Arte Cinematografica di Venezia, Jusqu’à la garde (che in Italia è diventato L’affido) del regista Xavier Legrand è un film che trae la sua forza da una storia tanto potente quanto tristemente comune. Narrata attraverso una regia che raramente si vede così incisiva e forte.
Miriam (Lea Druker), dopo anni lunghi e difficili, decide di divorziare dal violento Antoine (Denis Menochét) e di richiedere la custodia esclusiva del figlio Julien (Thomas Gioria). Incapaci di provare effettivamente gli abusi dell’uomo, madre e figlio devono accettare la decisione del giudice per la custodia congiunta. Le tensioni tra i due coniugi continuano ad aumentare e la capacità di Antoine di sopportare la situazione è sempre più labile.
Jusqu’à la garde racconta una storia che tutti abbiamo già sentito almeno una volta di sfuggita al telegiornale e che alcuni forse si sono trovati a vivere. La violenza domestica è forse una delle realtà più dolorose che la società si trova ad affrontare perché avviene proprio all’interno di quel nido che dovrebbe rappresentare invece protezione e sicurezza contro le avversità del mondo.
Ancora peggio è quando ci si scontra con la difficoltà di denunciarla, mossi dalla paura, ma anche dall’incapacità di riuscire a dare dei confini netti tra quello che è considerabile come “mero incidente” e quello che è abuso di potere (fisico e psicologico), che spesso sfocia nel disturbo mentale e nell’incapacità, anche di chi lo esercita, di riconoscerne la natura e la pericolosità.
Il piccolo Julien è il grido silenzioso di tutti quei bambini la cui voce viene sentita ma mai creduta fino in fondo, le cui parole sono sempre da misurare e pesare “perché potrebbero essere state suggerite da un adulto”. Un dubbio umano, legittimo, che nutriamo inizialmente anche noi spettatori e che sta alla base del dramma di una famiglia di persone spezzate e disperate. Di una madre pentita di non aver agito prima, divenuta un muro d’intransigenza che non trova più spazio (giustamente) per il compromesso e il cui nuovo atteggiamento spinge il marito, ormai solo e disperato nella sua incapacità di comprendere il proprio problema, a compire scelte sempre più pericolose e al limite, fino a perdere completamente la testa e sfociare in una violenza che non sente ragioni.
Xavier Legrand si rivela un maestro nel raccontare i suoi personaggi e lo fa creando le condizioni migliori perché lo spettatore arrivi ad immedesimarsi quasi completamente, a rotazione, in ognuno di loro. Un uso sistematico e intelligente della soggettiva ci fa trovare involontariamente coinvolti nella vicenda, nelle emozioni e nei sentimenti dei protagonisti e in particolare di Julien e della sua paura crescente.
Un film dove lunghi sguardi e silenzi non pesano, perché in un certo senso è come se fossero i nostri, dove nessuno ha fretta di scoprire cosa c’è alla fine da quel tunnel di tensione che sembra destinato inevitabilmente a sfociare in qualcosa di terribile.
La sequenza finale è spaventosa, degna dei migliori film horror, terribile nel suo realismo. Siamo lì con le mani sul viso e il sudore che scivola sulla fronte, sperando che tutto vada per il meglio, perché in quella casa tra quelle mura ci siamo anche noi.
Jusqu’à la garde è un film che fa paura, perché il mostro è proprio lì vicino a te e, a volte, dentro di te.
Susanna Norbiato
PRO | CONTRO |
Regia perfetta, dall’apporto essenziale per la percezione del film.
Grandi interpretazioni. Una sequenza finale da brividi (in tutti i sensi).
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A tratti, per la natura insita alla storia che racconta, può risultare un po’ pesante.
Verso la metà si percepisce un rilassamento narrativo e un rallentamento dei ritmi, che risulta però funzionale al finale. |
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