Capri-Revolution, la recensione

Capri-Revolution è il titolo poco piacevole (decisamente meglio l’originario Capri-Batterie, che se non altro trova giustificazione nel corso del film) dell’ultima fatica di Mario Martone, che con quest’opera termina un trittico di affreschi storici iniziato con Noi credevamo e proseguito con Il giovane favoloso.

Protagonista è la brava Marianna Fontana, la star di Indivisibili che regala una nuova preziosa performance che la conferma come attrice dal futuro promettente.

Sorprendentemente però questa volta, al di là dell’ambientazione novecentesca, ci troviamo di fronte ad una storia più intima e personale. Capri-Revolution è infatti un racconto di formazione, quello della giovane capraia Lucia, una bellezza rozza e sgraziata. Nonostante un temperamento piacevolmente passionale, la ragazza sembra imprigionata in un’epoca che non le appartiene, fortemente dominata dalle malelingue, dall’ignoranza dilagante e dalla sottomissione al maschio (in questo caso incarnata dai due fratelli di Lucia).

A cambiarle la vita sarà un incontro, quello con Seybu, un pittore fautore di una visione spirituale ed alla guida di una comunità di adepti che lo venera come un secondo Cristo. Da un lato, quindi, la bellezza gitana di Lucia, dall’altro la figura messianica di Seybu. Un conflitto di per sé interessante che però Martone interpreta pacificamente spostando altrove il focus del suo discorso.

La rivoluzione a cui si fa riferimento nel titolo è in questo caso umana, declinata ora nella forma di una scoperta dell’eros (l’omaggio a Monica e il desiderio è lampante!), ora in quella della realizzazione individuale. Ma Martone sceglie di raccontarcela in una forma stilistica documentata da riferiminenti all’arte, alla filosofia e alla danza. Veniamo quindi immediatamente rapiti dal suo raffinatissimo sguardo su un’isola a cui attribuisce una dimensione rosselliniana e sull’esibito nudismo di Seybu e dei suoi seguaci in una rappresentazione dei corpi che sembra fortemente influenzata dal cinema di Derek Jarman (e viene in mente soprattutto Sebastiane).

Questo sguardo però si dissolve verso il centro del film e cede il passo ad uno stridente simposio incentrato sul conflitto tra spiritualismo e materialismo (rispettivamente rappresentato nelle figure del medico dell’isola e di Seybu). Una scelta che lo porta per un po’ a distrarsi dalla sua protagonista riservandole un trattamento alquanto discutibile. Non solo la sceneggiatura la mette di fronte ad eventi che non aggiungono nulla al suo percorso, ma nel frattempo sembrerebbe essersi modificato anche lo sguardo del regista, quasi Lucia fosse diventato un oggetto lontano e improvvisamente meno interessante. Senza troppo togliere all’opera nel suo complesso, questo rischiosissimo cambio di rotta chiaramente non convince. Da lì in poi, in effetti, il film sembrerebbe aver esaurito le sue energie e procede senza intoppi né sorprese.

Al di là dei dubbi circa le conseguenze derivanti da questo stravolgimento centrale, ci resta comunque un importante linguaggio visivo, forgiato proprio sotto i nostri occhi, rarissimo nel panorama italiano e lontano da qualsiasi stereotipo già troppo abusato.

Claudio Rugiero

PRO CONTRO
  • Un film caloroso, toccante ed intriso di citazioni coltissime che si esprime soprattutto mediante la magica voce del silenzio.
  • Il regista affronta due personaggi in maniera tutt’altro che scontata e sembra più interessato a studiarli piuttosto che a raccontarli.
  • Pur non sempre convincente, supera per l’originalità dello sguardo i precedenti Noi credevamo e Il giovane favoloso.
  • Un cambio di rotta centrale con conseguenze non proprio entusiasmanti.
  • A livello di sceneggiatura sembrerebbe esserci qualche buco: non sono molto chiari alcuni sviluppi relativi al personaggio di Lucia o i rapporti tra Seybu e i suoi adepti.

 

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Valutazione: 6.0/10 (su un totale di 1 voto)
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