Venezia79. Love Life, la recensione
Presentato in concorso alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia, Love Life di Kōji Fukada, è un racconto familiare quotidiano e drammatico in cui il regista giapponese ci porta in una giovane famiglia sconvolta da un trauma.
Taeko (Fumino Kimura) e Jiro (Kento Nagayama) sono da poco sposati, ma la relazione non è vista di buon occhio dal padre di Jiro in quanto Taeko aveva avuto già un figlio da una precedente relazione. Il piccolo, Takei, è particolarmente intelligente, tanto da essere un campione di Othello a soli 6 anni.
A sconvolgere la vita della famiglia sarà un doloroso trauma che porterà i protagonisti ad interrogarsi su sé stessi e su ciò che hanno intorno, e che riporterà nella vita dei protagonisti alcuni personaggi del passato, un passato che sembrava ormai sepolto ma con cui invece i protagonisti non avevano ancora realmente fatto i conti.
Il film è esteticamente eccezionale: ogni frame è composto con grande cura ed è così pieno di elementi che riesce a trasmettere più di quello che raccontano le parole dei protagonisti. A film concluso, avrei voluto fare uno screenshot di ogni singola inquadratura per quanto queste sono ben fatte e proporzionate, con uno straordinario senso della profondità e una composizione armoniosa e dai colori brillanti. La fotografia è il vero punto forte del film, viva e dinamica, in cui il manierismo di alcuni giochi di luce portano avanti la narrazione, con un dischetto appeso alla finestra della casa dei protagonisti che oscillando al vento gira su sé stesso e riflette la luce.
Il racconto si concentra invece sul trauma, sulla rottura e la rinascita, sul passato e sul futuro, riuscendo anche a strappare qualche sorriso nonostante le situazioni drammatiche che accadranno attorno ai protagonisti. Love Life è infatti un classico film drammatico giapponese, pieno di traumi che sconvolgono le vite apparentemente tranquille dei personaggi, fantasmi del passato e toni sofferenti e dimessi che tendono in alcuni momenti al melodrammatico e altri al dolce amaro.
Narrativamente il film non è nulla di particolarmente originale e riesce più che a colpire il cuore a rapire gli occhi dello spettatore, con la perfezione delle inquadrature e dei colori e l’alternanza tra camere fisse e movimenti di macchina, in particolare nel caso di due speculari piani sequenza.
Love Life, il cui titolo è ispirato alla omonima canzone di Akiko Yano del 1991, è un film delicato in cui si può avvertire l’influenza dei drammi familiari di Hirokazu Kore-eda (vincitore a Cannes nel 2018 con Shoplifters) e che ha il suo punto di forza principale nel comparto artistico, senza avere però una grande storia particolarmente originale da raccontare, ma concentrandosi sul quotidiano, la sua rottura, e la sua eleganza.
Mario Monopoli
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