Wolf Man, la recensione

Periodicamente i mostri classici tornano a popolare gli incubi cinematografici degli spettatori. Abbiamo vissuto un totale restyling di Dracula & co. negli anni ’90, in seguito al grande successo del film di Francis Ford Coppola, a cui ha seguito il Frankenstein barocco di Branagh, il Wolf di Wall Street con Jack Nicholson, il Dr. Jekyll intimista visto dalla sua governante Julia Roberts e La Mummia in chiave pop e avventurosa con Brendan Fraser. Poi quella banda di Mostri sembrava pronta a tornare negli anni 10 del XXI secolo ma il Wolfman con Benicio Del Toro non aveva fatto breccia al botteghino così come Dracula Untold con Luke Evans e ancora meno La Mummia con Tm Cruise, che rappresentò l’inizio e allo stesso tempo la fine di un promettente progetto multibrand e all stars mai davvero avviato.
Ora, a distanza di qualche anno, Universal Pictures ci sta riprovando a celebrare i suoi classici dell’horror in una chiave davvero inedita che non ha alcuna pretesa di creare collegamenti multiversali. E se la celebrazione del più iconico vampiro della letteratura, prima attraverso le contaminazioni pop con Renfield poi con quelle autoriali di Nosferatu, hanno fatto discorso a sé, Jason Blum (in produzione) e Leigh Whannell (in scrittura e regia) hanno invece articolato un percorso personale e minimalista prima con L’uomo invisibile e ora con Wolf Man.
Come accaduto per il film del 2020 con Elizabeth Moss, anche per Wolf Man Whannell riprende il titolo del vecchio film – in questo caso L’uomo lupo di George Waggner del 1941 – ma non realizza un remake, come aveva invece fatto Joe Johnston nel 2010. Al contrario, tira fuori dal cilindro una storia nuova di zecca che rielabora con piglio moderno e metaforico il mostro per raccontare la società contemporanea.
Lo scrittore Blake riceve la notizia della morte di suo padre, con il quale non aveva più rapporti da molti anni. In eredità, l’uomo ha ricevuto una fattoria in Oregon dove decide di andare con la moglie Charlotte e la figlioletta Ginger per trascorrere un periodo utile a ritrovare l’ispirazione perduta. Giunto quasi a destinazione, un ostacolo non ben identificato sulla strada porta il furgone di Blake a sbandare: ma non sarà l’incidente a ferirlo, piuttosto una creatura mostruosa che attacca immediatamente la famigliola nei boschi. Rifugiandosi per il rotto della cuffia proprio nella casa paterna, Blake e i suoi famigliari dovranno difendersi dagli attacchi del mostro, ma quel graffio sul braccio dell’uomo lo conduce a una lenta mutazione che potrebbe renderlo una minaccia per la sua stessa famiglia.
In Wolf Man 2025 la licantropia non è una maledizione e il soprannaturale è trattato con piglio “realistico”, quasi medico, nonostante una eco di folklore si possa comunque intuire dalla didascalia iniziale che vuole collegare questa “malattia” nota come ‘Volto del Lupo’ alle credenze dei nativi americani. ‘Febbre delle colline’, invece, la chiamano lì in Oregon ed è a tutti gli effetti un virus che si trasmette con il contatto di fluidi corporei portando la mente e il corpo a una lenta trasformazione. La licantropia per Leigh Whannell è psicosomatica, ma ha anche un chiaro effetto esteriore, sul corpo di chi la manifesta. In questo dualismo licantropico, Whannell trova l’ideale incontro tra due classici del cinema degli anni ’80 che chiaramente hanno fornito più che una semplice ispirazione: Shining di Stanley Kubrick e La mosca di David Cronenberg.
Dal film di Kubrick Whannell – che è anche co-autore della sceneggiatura insieme a sua moglie Corbett Tuck – prende tantissimo perché Blake, come Jack, è uno scrittore in crisi che scivola lentamente nella follia diventando un serio pericolo per moglie e figlia. Però in Blake, a differenza di Jack, c’è una consapevolezza di quello che sta accadendo, della situazione che sta degenerando, che fa emergere il suo lato umano. Una componente che cerca inutilmente di opporsi alla “bestia” emergente, che invece sta assumendo il pieno controllo del corpo e, pian piano, della mente.
Da Cronenberg, invece, Whannell coglie l’intuizione più importante del suo film, ovvero una trasformazione lenta e progressiva che mostra allo spettatore ogni fase del repellente mutamento da uomo a lupo. Svolgendosi quasi in tempo reale tutto nel corso di una notte, Wolf Man documenta il processo di mutazione uno step alla volta non mostrandoci mai, di fatto, la trasformazione nel suo stadio finale. Da una parte, questa scelta è molto originale e pone al film un impianto di dissonanza realistica, ma dall’altra non offre allo spettatore un mostro su cui legare i propri ricordi, negando, di fatto l’icona che è l’Uomo Lupo, la “maschera”.
Anche se Wolf Man ragiona (un po’ timidamente) sulla violenza intrinseca nella società patriarcale americana e sul machismo forzato, creando un fil rouge che collega le colpe dei padri alla natura dei figli, viene a mancare quell’intuizione geniale che faceva de L’uomo invisibile un efficace affresco pop sulla piaga dello stalking. Lì i legami alla cronaca nera, ai femminicidi, erano un’audace chiave di volta, qui i riferimenti alla violenza maschile sulle donne appare un po’ pretestuosa e non troppo approfondita.
E allora meglio dimenticare fumose letture sociologiche e concentrarci sull’aspetto più genuinamente da b-movie di Wolf Man, che sa offrire meccaniche da home invasion efficacemente condite con il body-horror, concedendo allo spettatore anche l’inedito punto di vista del licantropo, quello che “sente” nel corso della sua transizione bestiale.
Christopher Abbott, che abbiamo visto di recente in Kraven il cacciatore ma preferiamo ricordare in Sanctuary e Povere Creature, offre un’efficacissima prova nel ruolo di un uomo che si sente prima professionalmente frustrato (sua moglie è una giornalista di successo, lui fa il genitore a tempo pieno), poi fisicamente stravolto dalla licantropia. Julia Garner, nei panni della moglie e novella Sarah Connor, invece, convince meno soprattutto perché sembra non crederci abbastanza, come se si trovasse a passare di lì e qualcuno l’avesse spinta sul set.
Dunque, Wolf Man si presenta come un film di mostri che sa sicuramente svolgere a dovere il suo compito da b-movie, però gli manca quel quid che possa nobilitarlo, renderlo memorabile e farlo emergere dalla massa; dal team che stava dietro a L’uomo invisibile quel quid era lecito aspettarselo. Fa piacere, però, constatare che ogni singolo effetto speciale del film (e ce ne sono molti) è stato realizzato in maniera pratica, sul set, proprio come si faceva una volta, prima che la CGI rendesse tutto “finto”.
Roberto Giacomelli
PRO | CONTRO |
|
|
Lascia un commento