Black Mirror: Bandersnatch. Nella tana del Bianconiglio

Il 28 dicembre è uscita su Netflix una puntata di Black Mirror molto speciale, il primo prodotto interattivo diretto agli adulti.

Lo speciale vede alla regia David Slade, già regista di alcune puntate di Hannibal, American Gods, una di Breaking Bad e che aveva già dato buona prova di sé in un’altra puntata dello stesso Black Mirror con l’episodio della quarta stagione Metalhead.

Le aspettative per questo episodio erano tante, sia per il concetto stesso di interattività, sia perché facente parte dell’universo di Black Mirror (ormai diventato garanzia di successo).

Lo speciale parla di Stefan (interpretato da uno psichedelico Fionn Whitehead, già visto in Dunkirk e in Him), ragazzo problematico appassionato di videogiochi. Stefan riesce a vendere a una compagnia di Gaming, Tuckersoft, la sua idea per un videogioco ispirato a un “libro-game”, Bandersnatch. La vera problematica della puntata per lo spettatore sarà nel momento della creazione del gioco, dovendo condurre Stefan verso scelte sempre più psicotiche, arrivando a finali diversi, ma in realtà simili per tragicità.

Questa è stata la critica più spinta verso Bandersnatch, che ci sia soltanto un’illusione di interattività, che i creatori forzino lo spettatore a certi percorsi. Non è sbagliata come affermazione, è vero che molti sentieri sono obbligati. Ma perché succede? Bandersnatch è una puntata interattiva facente parte di una serie antologica tipicamente conosciuta per la sua critica alla tecnologia e per una visione catastrofica della stessa sul lungo termine. Se questa puntata interattiva fosse stata inserita in una qualsiasi altra serie forse avremmo avuto scelte più varie, con finali seriamente differenti, ma così non è stato.

L’impronta di Black Mirror è fortissima e osserviamo la puntata chiudersi su sé stessa: si creano loop in cui veniamo forzati a prendere un percorso, personaggi che inneggiano all’impossibilità di una vera scelta, il protagonista che quasi guarda in camera chiedendo chi stia compiendo quelle decisioni per lui. Black Mirror crea l’interattività negando la possibilità stessa dell’interattività, arrivando addirittura all’origine, in quella che forse è la più intricata delle possibilità: quando ci troviamo davanti lo studio stesso di regia e gli attori con in mano i copioni (chi compie le scelte? Gli scrittori), in un pirandelliano meta-Netflix.

Il tunnel è infinito, le scelte si ripropongono all’inverosimile finchè non scade il tempo definitivo della puntata di un’ora e mezzo, lasciandoci confusi.

Il termine stesso “Bandersnatch” non solo si rifà ad un videogioco realmente esistito ma ad un personaggio di Lewis Carroll, nominato in Alice attraverso lo specchio (chiamato nella traduzione italiana “Bandafferra”), e i riferimenti al classico per bambini non sono pochi: si parla continuamente del pupazzo di peluche di Stefan da bambino, un coniglio, che lui tormentato cerca di ritrovare (come Alice con il Bianconiglio); il suo collega di lavoro Colin (Will Poulter) lo invita a un party allucinogeno che ricorda molto quello a tavola del Cappellaio Matto; ad un certo punto Stefan passa letteralmente dall’altra parte di uno specchio e il demone Pax (da cui l’autore del libro a cui si ispira il videogioco di Stefan è ossessionato) assomiglia molto alle illustrazioni originali di Peter Newell del Bandersnatch/Bandafferra.

Uno dei possibili finali verte addirittura a ispirazioni Orwelliane, tramite l’ipotesi di essere stati da sempre sorvegliati, che tutto sia parte di un gigantesco complotto, facendo tornare così le domande sulla libertà di scelta e il libero arbitrio.

Forse Bandersnatch non ci ha dato quello che volevamo pensando all’interattività, ma ci ha regalato una puntata di Black Mirror complessa, intessendo la sua storia psichedelica ad un’altra tipicamente considerata tale, ma soprattutto (come al solito) invitandoci alla riflessione. Non è un merito da poco. Aspettiamo con ansia la nuova stagione di Black Mirror.

Silvia Biagini

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