Delta, la recensione

In una zona sospesa sul delta del Po, idealmente collocata tra Ferrara e Rovigo, va avanti da tempo una spietata caccia tra pescatori e bracconieri. In modo particolare è verso la famiglia Florian che i pescatori locali riservano un grande odio, ovvero una famiglia di bracconieri venuti dalla Romania che continuano a praticare una pesca illegale servendosi della corrente elettrica. A dare la caccia ai Florian ci pensa Osso, un volontario per la salvaguardia del territorio che, insieme a sua sorella Nina, passa le giornate a perlustrare tutte le zone boschive che si affacciano sul fiume. All’interno della famiglia Florian, invece, c’è Elia, un uomo possente e silenzioso che di quei bracconieri ne è sia il braccio armato che gli occhi: prima di emigrare in Romania, infatti, Elia viveva proprio in quelle zone sospese sul delta. Quando Anna, l’ex moglie di Osso, si avvicina casualmente proprio ad Elia, i destini dei due uomini si legano in modo inesorabile. Adesso l’unica via possibile è quella spietata della caccia all’uomo.

Basta chiudere gli occhi per ritornare rapidamente con il pensiero ad una manciata di anni fa, quando potevamo guardare il panorama cinematografico italiano solamente con uno sguardo triste e sofferente. In quel momento era possibile vedere solo uno scenario vetusto, stanco e impolverato, dove a mancare – in primis – erano l’ambizione e la fantasia.

Oggi la situazione cinematografica italiana è nettamente cambiata e chi afferma il contrario sta mentendo; infatti, è impossibile non riconoscere gli sforzi che il nostro cinema sta compiendo per recuperare un po’ di quel terreno perso in interi decenni di buio. Il cinema italiano sembra adesso davvero determinato a fare balzi in avanti, a guardare con sempre meno desiderio le commedie usa e getta così come i drammi sociali, per avvicinare, al contrario, un cinema squisitamente più internazionale. Quel cinema comunemente definito glocal – termine che ha iniziato a diffondersi a macchia d’olio con l’avvento delle piattaforme – ossia capace di parlare alle platee di tutto il mondo pur restando fortemente ancorato alle tradizioni del proprio Paese.

E il pubblico, che con buona pace dei produttori è sempre stato pigro e sempre lo sarà, inizia anche a rispondere discretamente bene a questo svecchiamento del cinema nostrano. La testimonianza ce l’abbiamo proprio sotto al naso, con il successo inaspettato di L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano, un efficacissimo poliziesco dai toni noir che regge quasi esclusivamente sulla performance attoriale di Pierfrancesco Favino.

Esce nelle sale anche Delta, opera seconda di quel Michele Vannucci che nel 2016 aveva esordito dietro la macchina da presa accendendo l’ennesimo focus sulle periferie romane con Il più grande sogno, una stanca storia di redenzione e riscatto nel quartiere La Rustica che aveva il più grande merito d’aver consacrato la credibilità artistica del caratterista romano Mirko Frezza (che nel film interpretava più o meno sé stesso).

Con Delta Michele Vannucci finisce sotto l’ambita ala protettiva di Matteo Rovere e della sua Grøenlandia e realizza un film dal carattere diametralmente opposto a quello della sua opera prima ma in linea con la mission editoriale di Rovere. Un’opera assolutamente glocal, appunto, un film capace di reinventare la geografia e l’antropologia italiana in favore di una messa in scena e di un tono che non hanno nulla da invidiare a certo cinema internazionale. Già solo mettendo a confronto l’opera prima di Vannucci con questa sua opera seconda – ci sono almeno sei anni di differenza fra uno e l’altro – possiamo notare questo cambiamento radicale nella concezione italiana della materia cinematografica.

Lo vogliamo dire con un certo entusiasmo: Delta di Michele Vannucci è davvero un esempio di cinema maturo! Ed è anche qualcosa che fa particolarmente bene alla casa di produzione capitanata da Rovere e Sibilia. Si, perché Grøenlandia ha l’indiscutibile merito d’aver – più di altre – contribuito al suddetto svecchiamento del cinema italiano con la pecca, al tempo stesso, di averlo fatto spesso guardando in modo un po’ troppo ingenuo verso il cinema americano.

Con Delta questo errore viene abilmente schivato.

Il film di Vannucci, infatti, pur ricordando in modo insistito certo cinema di Sam Peckinpah (con uno stratosferico Luigi Lo Cascio che ammicca in più di un’occasione al Dustin Hoffman di Cane di paglia), riesce, nel suo complesso, ad evitare il confronto diretto con il cinema statunitense per trovare rifugio in un cinema a carattere fortemente europeo.

È decisamente lodevole il modo in cui Michele Vannucci riesce a far dialogare i generi fra loro, mischiandoli e contaminandoli di continuo, utilizzandoli come cifra stilistica e colpo di scena al tempo stesso. Di base, infatti, Delta è un dramma psicologico che sfocia nel thriller puro a mano a mano che la narrazione avanza verso i titoli di coda. Ma Vannucci non si fa bastare questo “semplice” cambio di registro e così, prima di arrivare all’ultimo atto in cui è una selvaggia caccia all’uomo tra le paludi del delta a condurre il gioco, si diverte a giocare di messa in scena e punta tutto su una regia magistrale, una fotografia suggestiva (firmata da Matteo Vieille Rivara) e delle scenografie naturali (orchestrate da Laura Boni) che da sole fanno tutto il film. Servendosi di questi espedienti stilistici che ci ricordano quanto la personalità di un autore sia importante ma spesso assente dal nostro cinema, Delta è un dramma-thriller che vuole essere prima di tutto Cinema e così insegue (e abbraccia) un codice tutto suo che attinge con maestria anche da stilemi che sono tipici sia del cinema western che dell’horror rurale.

In Delta il vero protagonista è la Natura.

E la Natura, in Delta, fa decisamente paura.

Si, perché Michele Vannucci ci racconta il delta del Po come un luogo sospeso nel tempo e nello spazio. Un luogo che sa essere non-luogo al tempo stesso. Una terra di nessuno, costantemente paludosa e nebbiosa, dimenticata praticamente da tutti e quasi difficile da immaginare come singola parte di un’Italia più vasta. Quasi come in un film post-atomico, la popolazione di Delta vive solo ed esclusivamente di pesca. E da queste acque, i pescatori non fanno altro che tirare fuori alcuni tra i pesci di fiume più sgradevoli in assoluto: giganteschi pesci-gatto e pesci-siluro, bestie ripugnanti che, nel contesto messo in scena da Vannucci, assumono quasi l’aspetto di creature fantastiche anziché reali.

In questo mondo che riesce ad essere arido pur essendo sospeso sull’acqua, le autorità sembrano non esistere e alle singole persone è lasciato il senso pratico del dovere. La Giustizia è in mano ai singoli cittadini e spetta a loro farne buon uso. In una terra senza legge, va da sé, l’uomo è costretto a farsi giustizia da solo potendo confidare sul fatto che, tutto quello che accade su quelle acque statiche e paludose, è destinato a rimanere in quel luogo.

Il delta del Po come unico testimone oculare di ogni crimine, un complice perfetto pronto a salire sul carro del vincitore. Il delta del Po come enorme cimitero d’acqua pronto fagocitare tutto e tutti. Il delta del Po come limbo terreno in cui si aggirano anime inquiete con più di qualche peccato da espiare.

Ma a fare la differenza, in Delta, ci pensano anche gli altri due protagonisti del film: il già citato Luigi Lo Cascio, alle prese con un personaggio che lo conduce lentamente in territori interpretativi che fino ad ora non aveva mai esplorato, e Alessandro Borghi che, dopo Le otto montagne, torna ad impersonare un uomo rude, di poche parole e dalla cadenza veneta. Lo Cascio e Borghi sono le due pedine principali del racconto, un uomo schierato dalla parte della legge e un bracconiere senza scrupoli; due uomini così tanto opposti da risultare assolutamente identici nel finale. Anzi nell’ultimo atto, quando il dramma ha raggiunto le sue vette più alte, Michele Vannucci si rivela abile nel mescolare le carte e confondere i ruoli: non ci sono buoni e cattivi nel film, ci sono solo le mille sfaccettare dell’animo umano ed una bestialità che, se correttamente stimolata, è pronta ad esplodere in chiunque.

Insomma, Delta di Michele Vannucci è un concentrato di generi cinematografici con le idee molto chiare su quello che è e che deve essere il cinema moderno italiano. Un film di genere che sa essere anche profondamente autoriale (e anche qui la sua modernità), un’opera che, un po’ come ha saputo anche fare Claudio Cupellini nel sottovalutato La terra dei figli, riesce a raccontare una precisa zona d’Italia circoscrivendola all’interno di un’ombrosa storia di vendetta che ha il sapore del fango, della ruggine e dell’attesa inesorabile verso la morte.

Promosso a pieni voti.

Giuliano Giacomelli

PRO CONTRO
  • Un thriller drammatico che sa dialogare bene con i generi e che racconta il delta del Po come una selvaggia zona di confine sospesa nel tempo e nello spazio.
  • Regia, fotografia e scenografia da manuale.
  • Luigi Lo Cascio e Alessandro Borghi sono due anti-eroi a dir poco perfetti.
  • Nulla in particolare se siete disposti ad accettare un’opera che si muove con maestria tra i generi senza mai schierarsi dichiaratamente.

 

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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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