Le Ardenne – Oltre i confini dell’amore, la recensione

È una storia vecchia come il mondo. Due uomini, una sola donna. E lei? Li ama entrambi, ma in modo diverso, e soprattutto in momenti diversi. Loro si chiamano Dave (Jeroen Perceval) e Kenneth (Kevin Janssen). Una rapina andata male e Kenneth si fa la sua bella galera, non apre bocca, perché con tutti i limiti di un carattere insicuro e violento, riconosce il valore della lealtà. Salva il fratello Dave e la compagna, Sylvie, la Veerle Baetens già passata sui nostri schermi nel 2014 con il bel Alabama Monroe.

Vale la pena a questo punto fare cenno  all’incontrollabilità dei casi della vita, all’impetuoso gioco dei sentimenti che lega Sylvie e Dave in un imprevisto, inatteso e pericolosissimo amore infuso di speranza di riscatto e illusori progetti di redenzione. Il sogno di una vita noiosa. Almeno fino al giorno in cui Kenneth non esce di galera.

Jeroen Perceval, che fa del suo Dave un contraltare ieratico, dolce e tormentato alla ferocia e all’immaturità nervosa del fratello, è l’autore della pièce da cui Robin Pront, belga di origini olandesi con un passato di corti al suo attivo, tira fuori il suo lungometraggio d’esordio, riuscito e viscerale. Le Ardenne – Oltre i confini dell’amore è un noir suburbano dal vago sapore esistenzialista, cupo e malinconico, plasmato su una base di suspense e tensione, che esplode in maniera niente affatto imprevedibile ma potentissima nel terzo atto, sullo sfondo di quelle Ardenne che danno il titolo al film, il miraggio di un futuro migliore, o forse soltanto di un domani, nascosto nelle pieghe di un passato dilatato dalla nostalgia, e allo stesso tempo la sua tomba.

Contrappunti di umor nero salvano Le Ardenne dal rischio della tragedia furbetta e compiaciuta. Il modello di riferimento è il cinema equilibrista, fra tensione e black comedy, dei fratelli Coen, piuttosto che la vivacità postmoderna di Quentin Tarantino, di cui pure si è fatto il nome; la stessa raffigurazione della violenza, ne Le Ardenne, si tiene un po’ a metà strada fra l’algida stilizzazione supercool di Michael Mann e la giocosa ferocia, dilagante deformata ma sostanzialmente inoffensiva di tarantiniana memoria.

Anversa è sprofondata nella penombra, flagellata dalla pioggia, immersa in un grigiore squarciato da improvvisi lampi di colore. Il degrado della periferia rimanda ad una certa poetica dello squallore che, per esplicita ammissione dello stesso Robin Pront, è propria del cinema inglese contemporaneo. Interessante il personaggio della Baetens, con la sua dolce ferocia, la fragilità di una combattente che vuole lasciarsi il passato e cullarsi nell’utopia di un’esistenza stordita dall’abitudine. Il sogno di una vita noiosa, per l’appunto.

C’è un buon lavoro sulle caratterizzazioni. Le Ardenne, pur nella cornice di una struttura narrativa non particolarmente originale, non risparmia colpi di scena, e dà ai suoi personaggi il tempo di costruirsi un’accettabile profondità. Guarda ai fuoricasta, ai marginali, parla di lealtà, famiglia, amore, del tempo che passa e non lascia scampo.

Talvolta si ha l’impressione che il film nasca da un lavoro certosino di rimozione di qualsiasi minimo accenno di speranza nascosto da qualche parte nell’inquadratura. È qui che entra in gioco il potere quasi occulto del dark humour, a riscattare certe pesantezze che non possono comunque scalfire la potenza di un esordio notevole e molto, molto promettente.

Francesco Costantini

PRO CONTRO
  • La psicologia dei tre protagonisti è tratteggiata nel segno delle sfumature e dell’ambiguità.
  • La martellante e ossessiva colonna sonora contribuisce in maniera decisiva a costruire l’atmosfera del film.
  • Il pubblico saprà digerire la cupezza del racconto?
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