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Mindcage – Mente criminale, la recensione

Negli anni ’90 il thriller hollywoodiano andava forte al cinema, produzioni mainstream piene zeppe di star che facevano sfaceli al botteghino, finivano candidati agli Oscar (e vincevano pure!) e riscrivevano le regole del genere con audaci e iconiche opere che ancora oggi vengono citate e celebrate. Poi, vuoi la saturazione, vuoi la mancanza di domanda da parte del pubblico, il trend è passato e il grande thriller è diventato appannaggio di produzioni medio basse con star ormai tramontate nei ruoli principali. Questa “fase del tramonto” è avvenuta, più o meno, nel primo decennio degli anni 2000.

Ora, a.d. 2023, esce al cinema Mindcage – Mente criminale che non solo è fuori tempo massimo per essere un clone spudorato de Il Silenzio degli Innocenti, ma è completamente privo di una logica produttiva perfino annettendolo a quella fase di tramonto, alla quale comunque apparterrebbe con maggior naturalezza.

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John Doe

JOHN DOE

In una non precisata città degli Stati Uniti qualcuno sta seminando il panico. Un uomo, un assassino, un genio del male che si fa chiamare John Doe e che sta commettendo una catena di delitti senza precedenti. Ispirandosi ai sette peccati capitali (gola, lussuria, invidia, accidia, ira, avarizia e superbia), quest’uomo non lascia tracce di sé e sembra impossibile catturarlo. Un fantasma a tutti gli effetti.

I detective Mills e Somerset brancolano nel buio tra i mille indizi che l’assassino lascia sui luoghi dei delitti: un quadro al contrario, impronte digitali che nascondono messaggi segreti, occhi nelle foto cerchiati di sangue e il nome del vizio capitale di cui la vittima era peccatore, scritto a caratteri cubitali con materiale organico di ogni genere.

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