Alice attraverso lo specchio, la recensione

Alice in Wonderland ha segnato, nel bene e nel male, i trend del cinema fantastico contemporaneo. Oltre ad essere il film di Tim Burton di maggior successo di sempre, ha lanciato la moda della rivisitazione live action delle favole rese famose al cinema dai film d’animazione Disney. Era inevitabile, dunque, che la major di Burbank riportasse in scena i personaggi di quel film che tanta fortuna gli ha fruttato. E così nasce Alice attraverso lo specchio, che malgrado il titolo lo suggerisca, non c’entra nulla con Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò di Lewis Carroll, che era già stato compreso nel film di Tim Burton. Qui il regista di Edward mani di forbice non torna alla regia, ma si limita al ruolo di produttore, sostituito da James Bobin, già noto per aver diretto i due più recenti film sui Muppets.  

Un buffetto sulla guancia di Bobin è doveroso, perché è riuscito a fare meglio di Burton!

Non che ci volesse molto, diranno i più maligni, visto che Alice in Wonderland è notoriamente il film più odiato dell’invidiabile carriera di Burton, ma Bobin è riuscito a fondere con una certa armonia il tocco bizzarro e grottesco tipicamente butoniano con il rigore e la sobrietà del cinema tipicamente disneyano. Non siamo di fronte a un prodotto memorabile, ma quando l’allievo riesce a superare il maestro (seppur palesemente sottotono in quanto mero esecutore), è già un pregio non da poco.

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In questo sequel troviamo Alice Kingsleigh sulle orme del padre defunto, capitano di vascello della compagnia navale di famiglia. Ma le inside non tardano a farsi vive: gli affari non vanno bene e si prospetta la possibilità che la compagnia dei Kingsleigh possa essere acquistata dalla rivale compagnia di Hamish, l’odioso ex pretendente di Alice. Una volta rientrata a Londra, attirata dal Brucaliffo, Alice entra in uno specchio e si trova nuovamente nel Sottomondo, dove trova una situazione critica: il Cappellaio ha perso la sua moltezza a causa di una depressione legata al decesso dei suoi genitori in seguito a un attacco del Ciciarampa. Mirana, la Regina Bianca, chiede allora ad Alice di entrare nel palazzo del Tempo, appropriarsi della Cronosfera e viaggiare indietro nel tempo per salvare i genitori del Cappellaio.

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Partiamo dal presupposto che Alice in Wonderland non aveva bisogno di un sequel, visto che esauriva ampiamente gli spunti forniti da Carroll nelle sue opere. Nonostante ciò, Linda Woolverton, veterana sceneggiatrice Disney, riesce a trovare un innesco sufficientemente credibile per riportare Alice nel “Pase delle Meraviglie” donandole una nuova missione. Il pretesto è fornito da quello che, in fin dei conti, è risultato il personaggio più iconico e riuscito del precedente film, il Cappellaio Matto, che qui acquisisce una centralità maggiore, diventando di fatto co-protagonista al fianco di Alice.

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I riferimenti a Carroll vengono relegati a poche scene (Alice precipita su una scacchiera vivente e incontra Humpty Dumpty appena arrivata nel Sottomondo), dando spazio a una storia originale che trova la vera novità nella personificazione del Tempo. Questo bizzarro personaggio, interpretato con brillantezza da Sacha Baron Cohen, è il custode delle vite di tutti gli esseri viventi, ha una liason son la sempre più capricciosa Regina Rossa e, soprattutto, possiede la Cronosfera, marchingegno che non è altro che una macchina del tempo. Grazie a questa novità, Alice attraverso lo specchio intraprende un singolare mix con i linguaggi del prequel, mostrandoci il passato di alcuni personaggi chiave (non solo il Cappellaio) e riuscendo a ribaltare la percezione che abbiamo di alcuni di loro.

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Come spesso accade quando si ha a che fare con i viaggi nel tempo, anche Alice attraverso lo specchio gioca con i paradossi legati al modificare il passato per avere un diverso presente. Anche se piuttosto importante per la storia in sé, questo dato non viene sfruttato a dovere, anzi viene sottovalutato il potenziale che i paradossi temporali possono avere sulle storie, e così tutto va un po’ come ci immagineremmo, senza troppe sorprese e con una linearità di base che forse non ci saremmo aspettati.

Solita perizia tecnica che si traduce in uno spettacolo visivo di notevole portata, a cui contribuiscono soprattutto gli scenari legati a Tempo: il Grande Orologio, il suo intero palazzo, i suoi aiutanti (il simpaticissimo Wilkins su tutti) e le nefaste conseguenze dell’incontrare se stessi nel passato.

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A parte il già citato Baron Cohen, il cast è il medesimo del precedente film: Johnny Depp, Mia Wasikowska, Helena Bonham Carter, Anne Hathaway e Alan Rickman, che è la voce di Brucaliffo e alla cui memoria il film è dedicato.

Fermo restando che l’utilità di Alice attraverso lo specchio è inversamente proporzionale alla sua spettacolarità, ci troviamo di fronte a un prodotto di onesto intrattenimento, ricco di ritmo e con una consapevolezza d’essere ben maggiore in confronto al suo predecessore.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Spettacolare e visivamente molto curato.
  • Tempo è un bel personaggio e Sacha Baron Cohen, come sempre, lascia il segno.
  • Riesce a superare in qualità il film di Burton perché più consapevole del suo essere disneyano.
  • È sostanzialmente inutile.
  • Si gioca malissimo la trovata del paradosso temporale.
  • Partire dal Cappellaio per costruire tutta la storia sembra un pretesto “poco ispirato”.
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