Anatomia di una caduta, recensione del film vincitore a Cannes 2023

Sandra è una scrittrice di successo e si trova nella sua casa di montagna a Grenoble, nel sud-est della Francia, insieme al marito Samuel e al figlio Daniel, 11 anni e ipo-vedente a causa di un brutto incidente. I tentativi di Sandra di registrare un’intervista con una giornalista che è venuta a trovarla sono interrotti dalla musica assordante che Vincent ascolta mentre effettua lavori di ristrutturazione in soffitta, così la donna decide di salutare la giornalista e concedersi un po’ di risposo in camera da letto. Quando Daniel torna, insieme al suo cane-guida, da una passeggiata nel bosco, ritrova il padre riverso nella neve, morto, presumibilmente per una caduta dal lucernario della soffitta. Da quel momento, inizia un lungo processo che vedrà Sandra come unica sospettata anche se la donna si professa innocente e, insieme al suo avvocato, impugna l’ipotesi del suicidio.

Questo è solo l’inizio di Anatomia di una caduta, intenso dramma processuale, contaminato con il giallo, che ha portato la quarantacinquenne regista e sceneggiatrice francese Justine Triet a vincere la Palma d’Oro al 76° Festival di Cannes. Una bella svolta nella carriera della Triet, che veniva dalle dramedy sentimental-familiari La Bataille de Solférino (2013), Tutti gli uomini di Victoria (2016) e Sybil – Labirinti di donna (2019), segnando anche una netta cesura di genere. C’è da dire, però, che l’opera omnia della Triet presenta una certa coerenza tematica perché ad interessare l’autrice sono i rapporti di coppia e Anatomia di una caduta, oltre ad essere un giallo processuale incredibilmente realistico e avvincente, è una chirurgica disamina di un rapporto matrimoniale palesemente in via di disfacimento.

La vita matrimoniale di Sandra e Samuel segue il corso di tanti rapporti tra personalità celebri pronti a scoppiare: lui è un artista a tutto tondo, anche se la sua vera ambizione è la scrittura, settore nel quale non sembra più trovare ispirazione; lei è una scrittrice che sta avendo, invece, molto successo e – da quello che scopriamo abbastanza presto – il suo bestseller è basato su un soggetto del marito che lui non è riuscito a sviluppare. Tra i due, quindi, intercorre quasi una rivalità che, nel caso di Samuel, si concretizza in un’ipotetica invidia.

Tanto basta a far incrinare quello che dovrebbe essere, in primis, il rapporto tra moglie e marito. Se aggiungiamo che Sandra è una donna, economicamente indipendente, di successo, bisessuale e colpevole di una relazione extraconiugale con una donna, abbiamo un quadro abbastanza chiaro di come possa apparire un’indiziata perfetta, nonché una perfetta colpevole per la giuria e per il pensar comune, facilmente demonizzabile per quello che rappresenta nei canoni sociali. Ed ecco che Justine Triet, oltre a fornire una puntuale disamina di un rapporto di coppia morente, fornisce allo spettatore anche una lungimirante analisi dei giudizi e pregiudizi che una società, sulla carta moderna, può utilizzare come filtri per leggere un individuo.

Se la regista ha come indiscutibile esempio artistico Scene di un matrimonio di Ingmar Bergman (la lunga sequenza della ricostruzione del litigio ne è un chiaro riferimento), il titolo cita apertamente Anatomia di un omicidio di Otto Preminger e, proprio come il film del 1959, si sviluppa in buona parte attorno al processo per omicidio.

La notevole scrittura, opera della stessa regista insieme ad Arthur Harari, riesce a rendere incredibilmente avvincente il caso di Sandra, che seguiamo attraverso testimonianze e flashback, versioni soggettive che inevitabilmente risultano discordanti e disorientanti e, in parte, anche attraverso l’opinione popolare filtrata dai media. Ma la vera chiave di volta nel caso di presunto uxoricidio è il punto di vista di Daniel, un bambino quasi cieco che è un testimone altamente poco attendibile e non obiettivo, ma che si impegna tantissimo a ricostruire, attraverso i sensi differenti dalla vista, il possibile svolgimento degli eventi che hanno portato alla morte del padre.

E qui viene a crearsi un interessante parallelismo tra la cecità del bambino e quella dello spettatore che cerca di destreggiarsi nell’intricata vicenda facendo affidamento sugli altri e sul proprio intuito.

Il rigore stilistico della Triet, che gioca con il suono (la musica ha un’importanza fondamentale diegetica) ma rinuncia a qualsiasi vezzo di regia, è brillantemente supportato dalle interpretazioni degli attori, in particolare dall’algida protagonista Sandra Hüller (Requiem, I’m Your Man e che vedremo a breve in La zona d’interesse di Jonathan Glazer) che è effettivamente indecifrabile, e il piccolo Milo Machado Graner, alle prese con un’interpretazione che richiede davvero un grande talento per risultare così credibile e intensa.

Insomma, grazie a una vicenda avvincente e molto ben raccontata, Anatomia di una caduta si presenta come un giallo processuale in grado di far dialogare nel miglior modo possibile cinema d’autore e cinema popolare, tenendo fino alla fine uno sguardo realistico e uno sviluppo narrativo privi di sensazionalismi. Come è giusto che sia.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Uno sguardo stilisticamente rigoroso che accentua il senso di realismo.
  • Un’ottima protagonista affiancata da un altrettanto ottimo giovane comprimario.
  • Nonostante la durata fiume di 150’, risulta scorrevole e avvincente.
  • La durata, appunto, che in alcuni casi poteva essere ridotta rinunciando a qualche passaggio processuale di troppo.
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