Cold War, la recensione
Colgo al volo un avvenimento peri-cinematografico per cercare di presentare Cold War.
Il regista Pawel Pawlikoski avrebbe dovuto tenere una conferenza stampa a Roma per parlare del suo film da oggi nelle sale italiane, spopolando nel frattempo fra tantissimi concorsi internazionali (ultimi in ordine di tempo gli European Film Awards). Il giorno prima, l’aereo del regista viene cancellato e viene prontamente annunciata la cancellazione della conferenza. Per una strana coincidenza non leggo i ripetuti avvisi, mi fiondo al Baglioni Hotel Regina per scoprire la notizia e rimanere un attimo intontito. Come è possibile? Era stato concordato che a quell’ora di quel giorno ci sarebbe stato l’incontro e ora non c’è nessuno?
Deve essere stata la stessa reazione del povero Wiktor (Tomasz Kot) quando l’irriverente Zula (Joanna Kulig) non si presenta all’appuntamento per fuggire via insieme dalle grinfie della realtà politica della Polonia del dopoguerra. Ardono di passione e proprio per questo compiono scelte irrazionali con naturalezza, attraversando luoghi, amanti e stravolgimenti, ma tornando a sé stessi come due magneti mai allontanati abbastanza. Il campo di forze che ne viene fuori, oscillando tra allontanamento e avvicinamento, è talmente devastante da investire il film dal primo all’ultimo fotogramma.
L’Academy format, quel quadrato imperfetto con formato 1:1.33, insieme alla scelta cromatica non sono una replica delle fortune di Ida (Oscar al miglior film straniero nel 2015) ma l’unica possibilità espressiva rispettosa e compatibili con una storia. Il colore rimanda così al magnetismo degli interpreti e ai loro incontri-scontri mentre il formato ridotto si occupa delle scorie, trasformandosi da ostacolo in finestra privilegiata. Innesca, accompagna e riempie tutto la musica, rendendo perfettamente chiaro di volta in volta la sua funzione in relazione al contesto. Non è semplicemente il collante, è la rappresentazione musicale del contenuto profondo della storia.
Quale sia è difficile individuarlo precisamente. Perché la guerra fredda richiamata dal titolo trova la sua spiegazione di volta in volta nella relazione tra comunismo e capitalismo, tra realtà e passione, tra bianco e nero. In questo senso modo il nucleo Wiktor-Zula resiste in continua perdita ai quindici anni in cui si svolge la storia fino all’inevitabile momento della consapevolezza.
La sensazione è che Cold War assomigli all’esperienza di un sogno lucido in cui rimane sempre viva la coscienza di ciò che accade in un tempo necessario. Così, quando scorrono i titoli di coda, non c’è il ritorno da una sospensione del giudizio psicanalitica, ma soltanto la piacevole sensazione di aver afferrato l’anima di qualcosa.
Andrea De Vinco
PRO | CONTRO |
|
|
|
Lascia un commento