Da 5 Bloods – Come fratelli, la recensione

È sbarcato su Netflix lo scorso 12 Giugno il nuovo e attesissimo film di Spike Lee, Da 5 Bloods – Come fratelli e, dopo il meritato Oscar vinto con Blackkklansman, il regista afroamericano dimostra di essere in ottima forma.

Come la precedente opera, Lee dimostra di essere in grado di creare opere politicamente ed eticamente impegnate pur mantenendo un registro di genere e da satira, senza che il messaggio antirazzista venga meno. Anzi, uno dei difetti più marcati del suo cinema è proprio l’esagerato didascalismo con cui mette in scena l’ideologia politica che vuole abbracciare.

Se Blackkklansman era un mix di noir, buddy movie e satira politica, Da 5 Bloods abbraccia il filone war movie, il cinema d’avventura per adulti ed addirittura l’action più puro: ma il messaggio è il medesimo, come dimostra l’incipit con inserti di interviste a Malcom X, Martin Luther King e Muhammad Alì, ovvero parlare degli Stati Uniti di oggi nell’era di Donald Trump e anche del movimento Black Lives Matter.

Insomma, un film talmente attuale e profetico che sembra girato… domani!

da 5 bloods

Nel corso delle due ore e mezza, non sempre amalgamate perfettamente, (la prima mezz’ora è piuttosto ostica), il film racconta l’amicizia di alcuni veterani afroamericani che ritornano in Vietnam dopo cinquant’anni per dare degna sepoltura ad un loro compagno caduto e per ritrovare un tesoro che avevano sepolto durante la guerra. Quell’oro non solo rappresenta la giusta ricompensa per i dolori e le angosce sopportate durante gli anni di quell’inutile conflitto, ma anche una possibilità di rivalsa per tutti i “fratelli neri” trattati ingiustamente in ogni parte degli Stati Uniti.

Ed ecco che il racconto/fiume messo in scena da Lee assume di volta in volta una faccia diversa, pur mantenendo salda la fede nel messaggio politico. Poco importa se si ride, se ci si commuove, se una mina dilania in mille pezzi un uomo, se volano pallottole e scazzottate: l’ingiustizia nei confronti dell’etnia afroamericana deve essere sempre o comunque in primo piano, sbandierata ai quattro venti a discapito del racconto. In un paio di momenti si ha quasi la sensazione che il regista si freni sul più bello, proprio per paura di diventare troppo di genere e meno politico, come se un film apertamente action/thriller non fosse in grado di elargire argomentazioni su questioni sociali importanti.

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Eppure, c’è stata tutta la fortunata stagione del cinema Blaxploitation che utilizzava in modo spudorato e senza remore i codici di qualsiasi genere (erotico, horror, thriller, revenge ecc..) per raccontare un disagio sociale o un’ingiustizia razziale. E molto spesso era più efficace di un qualsiasi film autoriale impegnato.

Pur essendo un film corale già nel titolo, la performance che emerge in modo preponderante è quella di Delroy Lindo.

È afroamericano come il regista ma interpreta un personaggio totalmente in antitesi: razzista nei confronti dei vietnamiti (indossa un capellino con il triste slogan trumpiano Make America Great Again), è distrutto dalla sindrome post traumatica e dai sensi di colpa ed è l’unico a non essere riuscito ad andare avanti con la propria vita. Ed è anche l’unico che rimarrà fedele alla sua ideologia e che non appoggerà mai il credo del regista, a differenza di tutti gli altri fratelli inquadrati da Spike Lee.

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Ed è questo contrasto a dare linfa vitale al film, perché nei racconti così come nella vita sono i contrasti a generare le tensioni più importanti ed avvincenti, piuttosto che una cieca aderenza ad un credo politico o di qualsiasi altro genere.

Peccato solo che gli eccessivi slogan politici lo rendano semplicemente un buon film, mentre il grande film che sarebbe potuto essere (una sorta di Apocalypse Now o Bastardi senza gloria in salsa black) si intravede appena di sfuggita, con la coda dell’occhio tra una sequenza didascalica e l’altra.

In ogni caso da vedere.

Stefano Tibaldi

PRO CONTRO
  • A parte la prima mezz’ora, la lunga durata non si fa per nulla percepire.
  • L’interpretazione fenomenale di Delroy Lindo.
  • I diversi generi affrontati che stimolano il ritmo e si interscambiano più volte.
  • L’eccessiva militanza politica gridata così forte che in alcuni momenti ammazza il racconto.
  • I generi utilizzati per sviscerare il messaggio politico sono spesso tenuti con il freno a mano.
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