Gravity, la recensione
Mentre si trovano in orbita attorno alla Terra intenti a riparare un satellite, la dottoressa Ryan Stone e l’astronauta alla sua ultima missione Matt Kowalsky vengono investiti da una tempesta di detriti provenienti da un altro satellite distrutto. L’impatto è disastroso: lo shuttle su cui Ryan e Matt sarebbero dovuti tornare è stato danneggiato, la forza propulsiva del jetpack di Matt si sta esaurendo e anche la riserva di ossigeno dei due non è molta. Inoltre nell’arco dei prossimi 90 minuti la tempesta di detriti si abbatterà di nuovo nella loro direzione. Per i due l’unica possibilità di salvezza è raggiungere una capsula di salvataggio cinese che si trova a molti chilometri di distanza, ma sopravvivere nello spazio a gravità zero è un’impresa veramente dura.
Nel 1979 usciva nei cinema Alien di Ridley Scott e per promuovere il film fu creata una tagline da antologia che riassumeva efficacemente in una frase ciò che il film avrebbe trasmesso, ovvero inquietudine: “Nello spazio nessuno può sentirti urlare”. Lì c’era un mostro extraterrestre, uno xenomorfo, a veicolare il terrore, ma forse si potrebbe avere una gran paura di quello che lo spazio cosmico può riservarci anche senza alieni linguacciuti ad infestare le astronavi. È quello che vuole dimostrarci Alfonso Cuaròn che scrive (insieme al figlio Jonàs), dirige e produce Gravity, un film di fantascienza “realistica” capace di tenere con il fiato sospeso non solo i personaggi della vicenda, che si trovano presto con scarsità di ossigeno, ma anche gli spettatori che assistono a questa avventura da incubo.
La base di Gravity è il survival movie, soprattutto nella declinazione minimal che ha assunto in alcune produzioni relativamente recenti come Open Water, Buried, 127 ore o Black Water, ovvero location unica, pochissimi attori e un’intera vicenda basata su una sola situazione mirata alla sopravvivenza. Solo che nel film di Cuaròn il “minimale” è solo concettuale, visto che il budget a disposizione era di circa 80 milioni di dollari, e al posto di luoghi realisticamente raggiungibili da tutti come l’oceano, le montagne rocciose o una palude, ci si ritrova immersi a fluttuare tra le stelle. Il risultato è stupefacente e Alfonso Cuaròn, già regista dell’ottimo I figli degli uomini, realizza un film innovativo e teso dal primo all’ultimo minuto.
Presentato come film d’apertura fuori concorso alla 70° Mostra del Cinema di Venezia ricevendo una buona accoglienza dalla critica, Gravity è come spartibile in due tranche: una prima parte girata interamente all’esterno, con i due protagonisti fluttuanti nello spazio alla disperata ricerca di un appiglio o di un riparo dalla tempesta di detriti e dalla scarsità di ossigeno, e una seconda parte prevalentemente in interni. La prima parte ricorda appunto quelle situazioni di estrema drammaticità e disperazione di chi si vede abbandonato nel nulla e perduto a un destino terribile, quello che segue invece punta più sull’azione e sul nefasto susseguirsi degli eventi. Ma l’abilità di Cuaròn sta soprattutto nell’essere riuscito a tenere in maniera costante la tensione creando un accumulo continuo di situazioni di pericolo, quindi, anche quando l’ostilità della desolazione spaziale è messa da parte, ci sono nuovi incredibili pericoli ad attanagliare la protagonista in una vicenda (quasi) in tempo reale dal ritmo sempre incalzante.
Oltre a questo costante senso di tensione partecipativa, Gravity ha il grande merito di risultare visivamente (e tecnicamente) innovativo. Probabilmente non avete mai visto al cinema uno spettacolo come Gravity, un film composto da lunghi piani sequenza (alcuni finti ma abilmente simulati) che donano un movimento armonico ad ogni scena, da quelle più concitate a quelle in cui i personaggi galleggiano a gravità zero. La macchina da presa rotea, fluttua, segue dettagli che ludicamente vanno e vengono fuori dallo schermo grazie a un uso sapiente del 3D, che però non è solo orpello ludico ma appare realmente utile alla narrazione. Alcune scene sono di grande bellezza e di una complessità tecnica che ha richiesto un ingente sforzo realizzativo, con effetti speciali sempre funzionali a ciò che vediamo sullo schermo. A volte si tratta di semplici dettagli, come i riflessi sui caschi dei protagonisti, altre volte sono spettacolari scene di distruzione con oggetti che vengono contro lo spettatore e altre ancora affascinanti soggettive che sembrano uscite da un videogame in prima persona, fatto sta che Gravity a livello visivo è una delle cose più belle e complesse si siano viste negli ultimi anni.
Non bisogna dimenticare poi il sagace uso dei dialoghi, che con poche battute riescono a delineare in maniera credibile i due protagonisti, oltre alla bravura di Sandra Bullock, che qui ci offre probabilmente la migliore interpretazione della sua carriera. Clooney invece è Clooney, ovvero il solito piacione tutto sorrisetti, modo fi fare che ha caratterizzato la carriera di questo attore carismatico ma dall’interpretazione limitata, che qui ha la funzione di stemperare con il suo umorismo le scene più drammatiche. Forse l’unico limite di un film difficilmente attaccabile è la scelta di attribuire “quel” passato drammatico al personaggio della Bullock che suona tanto di espediente compassionevole da script hollywoodiano, troppe volete portato in scena.
Gravity è dunque una delle visioni d’obbligo di questo 2013… da guastarsi assolutamente in 3D e possibilmente in una sala che utilizza la tecnologia Dolby Atmos per il realismo del suono.
Roberto Giacomelli
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