In Fabric, la recensione

Quando chiudiamo gli occhi e pensiamo al sentimento della paura, esso viene collegato a fantasmi, demoni, serial killer mascherati e tutte le minacce convenzionali inculcateci dalla letteratura e dal cinema horror. Ma se il terrore provenisse dagli oggetti che ci circondano, anche quelli più banali o visti come fonte di piacere e gioia? Un’evenienza alla quale non potevano non pensare registi e scrittori di racconti del terrore che hanno saputo trasformare in simboli di morte e sangue oggetti come bambole (Annabelle e Chucky), automobili (Christine) o anche semplici vhs e tanti altri ancora. Tante storie, tanti gadget e altrettanti diversi e variegati modi di raccontare il terrore e le sventure che hanno come vittime i protagonisti a stretto contatto con essi: in alcuni casi gli oggetti prendono vita per uccidere chiunque si trovi davanti; in altri invece la loro maledizione incide sulla vita dei propri padroni con eventi funesti e tragici; in altri ancora influenzano la mente del suo proprietario fino a scavare dentro di questi e dare spazio al loro inconscio più terribile.

A questa terza ipotesi sembra approcciarsi Peter Strickland, autore mai banale e già apprezzato per il suo Berberian Sound Studio, che nel suo nuovo film, dal titolo In Fabric, si serve di un vestito maledetto per raccontare le pulsioni più recondite dell’animo umano e per dare forma e sostanza ad un incubo senza fine, alimentato dalla perversione e da un male ciclico e infinito. Ciò che ne viene fuori è un horror psichedelico, in alcuni punti disturbante, violento e morboso dal punto di vista piscologico e visivamente maestoso, per via di una fotografia che confeziona una festa di colori forti e atmosfere marce e stranianti.

Insomma, il regista inglese conferma ottime doti estetiche, annacquate però da qualche incertezza di troppo sul piano della scrittura.

Sheila è una donna sola e divorziata la cui autostima è letteralmente a terra, dilaniata da una vita monotona e un difficile rapporto col figlio che vive con lei. Un giorno, però, la donna si reca in un grande magazzino per approfittare dei saldi, e lì incontra una commessa che con i suoi modi gentili e seducenti la convince a comprare un bellissimo vestito rosso, da utilizzare per un appuntamento galante. Sembra l’inizio della rinascita per la protagonista, ma ben presto il bellissimo indumento rivela la maledizione che porta con sé e che sembra essere trasmessa da misteriosi riti stregoneschi svolti dal personale del grande magazzino. È l’inizio di un incubo ciclico e senza fine!

Come già accaduto nel suo precedente film succitato, Strickland ha come obiettivo quello di immergere lo spettatore in atmosfere psichedeliche, stordenti e senza possibilità di scampo per chi finisce tra le grinfie del male assoluto. Obiettivo raggiunto grazie ad un modello d’ispirazione, il cinema horror italiano anni Settanta, che si traduce in una fotografia dai colori forti ed iperrealistici, quasi utilizzati in chiave pittorica, e un accompagnamento musicale volto a prendere per mano lo spettatore e renderlo partecipe dell’orrore di cui è vittima la protagonista. Impianto visivo che rende In Fabric un film decisamente affascinante, ma anche denso di chiavi di lettura dal punto di vista psicologico.

Non si può, infatti, non pensare che gli eventi provocati dal vestito rosso possono essere letti come un prolungamento della psiche dei due malcapitati protagonisti, le cui pulsioni più recondite si materializzano attraverso i sogni, le allucinazioni e i tetri eventi provocati dall’oggetto maledetto.

Maledizione ravvivata da riti misteriosi di matrice stregonesca effettuati dai commessi dei grandi magazzini, i quali ricordano moltissimo la setta che albergava nella scuola di danza di Suspiria di Dario Argento, e che si ergono a protagonisti di sequenze dalla forte carica sensuale (altra caratteristica cara al cinema horror nostrano anni ‘70/’80) e intrise di immagini violente e crude. Insomma, Strickland sa bene come equilibrare immagini evocative ad altre più esplicite e con la giusta e necessaria dose di sangue.

Tale impianto visivo in linea con lo spirito del film, tuttavia, non trova il suo giusto sfogo in una sceneggiatura che parte bene, risultando lineare ed accattivante, ma che poi va via via spegnendosi con una seconda parte poco funzionale e che appare una mera ripetizione della prima vicenda con protagonista Sheila. Il grande demerito di Strickland, che del film è anche sceneggiatore, è quello di non trovare un filo di ricongiungimento tra le due storie, quando invece sarebbe stata più auspicabile una costruzione del film ad episodi.

In Fabric, in conclusione, è un film bello da vedere, disturbante per le sue tematiche e la messa in scena, ma balbettante quando si tratta di snocciolare una storia sviluppata non nel migliore dei modi. Nonostante ciò, ce ne fossero di registi come Peter Strickland.

Vincenzo de Divitiis

PRO CONTRO
  • La fotografia concorre a creare atmosfere disturbanti e marce.
  • Il plot presenta tantissimi spunti interessanti e chiavi di lettura profonde.
  • I tanti riferimenti al cinema horror italiano anni Settanta sono sempre un punto a favore di un film del terrore.
  • La seconda parte del film appare ripetitiva e scollata dal resto del film, nonché poco funzionale se si pensa all’idea di un film omogeneo e coerente.
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