In Guerra, La recensione
5 ottobre 2015. Il capo delle risorse umane della KLM viene spogliato dai dipendenti della stessa compagnia aerea, in rivolta dopo la conferma di quasi tremila esuberi. La scena viene riprese e trasmessa nei telegiornali francesi, calamitando l’attenzione di tutto il mondo e, tra gli altri, di Stephane Brizé. La potenza e la violenza di quelle immagini, prima televisive e poi crossmediali, rappresentano la fonte d’ispirazione reale del regista francese per il suo nuovo film In Guerra, già in concorso alla scorsa edizione del Festival di Cannes.
Gli avvenimenti di tre anni fa potrebbero rappresentare senza problemi la sinossi del film. La KLM diventa la Perrin, gli esuberi sono leggermente minori, la rabbia è praticamente la stessa. Vincent Lindon, nei panni di Laurent Amedeò, è un agguerrito delegato sindacale che si batte contro i licenziamenti della sua azienda insieme ai colleghi operai – tra attori e gente comune alla prima esperienza di recitazione – non tanto per il licenziamento in sé, quanto per non per permettere alla società per cui lavora di aumentare i propri profitti, dopo aver promesso di tutelare il rapporto lavorativo con gli operai in cambio di un sacrificio economico nella loro busta paga. Il film ricostruisce le fasi della protesta contro un meccanismo economico che improvvisamente dimentica la componente umana, osservando la rabbia e la disperazione che monta in persone, prima che lavoratori, costrette a non essere padroni del proprio destino.
Per questo si tratta di una guerra vera e propria, e Brizè sceglie di utilizzare un taglio quasi documentaristico e sporco, ricorrendo a riprese a mano e primi piani capaci di mettere al centro la gente, protagonista collettivo di un confronto bellico che se non si fa con armi vere e proprie, si serve di corpi, volti e sguardi per trascinarci dentro una storia che motiva, giustifica e invita all’azione. Non c’è modo di non sentirsi coinvolti da quello che succede ai dipendenti della Perrin, la finzione diventa in troppi punti difficile distinguere da una realtà fortemente cinematografica e ognuno di noi è chiamato a prendere le parti degli operai e degli imprenditori.
Non c’è bisogno di una costruzione particolare, ma soltanto di un lavoro immenso sul cast, sia in fase di selezione che sul set, per non perdere quella naturalezza nei dialoghi e nei rapporti interpersonali propri di una situazione ai limiti della decenza. In questo senso è magistrale il lavoro di Lindon nel tenere insieme il tutto, camuffandosi nel magma vivo della protesta per emergere nei momenti cruciali e lanciare una stoccata allo spettatore. Di colpo in colpo, il procedere verso la soluzione finale è lento ma inesorabile. E ci regala un’immagine cruda, potente e tremendamente reale che se non stupisce per originalità, è proprio per la sua necessità che colpisce allo stomaco, chiudendo magistralmente un trattato sulla miseria umana davanti al potere. Non c’è un finale ad effetto, non c’è un happy ending. C’è soltanto l’uomo, cui non rimane altro che lottare.
Andrea De Vinco
PRO | CONTRO |
La colonna sonora di Bertrand Blessing
L’assenza di spettacolarità Il lavoro tra Lindon e il cast di persone comuni |
Nessuno in modo particolare. |
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