Knight of Cups, la recensione

Qual è il miglior modo che una pellicola ha per essere ricordata? Una trama interessante e raccontata in maniera non banale, certo. Effetti speciali rivoluzionari non avulsi dal resto del racconto, anche. Ma la cosa che, per sua stessa natura, riesce ad aver maggiore presa su noi ignari spettatori è l’immedesimazione. Nel momento esatto in cui sentiamo fisicamente di provare ciò che il protagonista sta passando nella sua più o meno lunga serie di peripezie cinematografiche, ecco che scatta verso di noi un’invisibile e infido uncino che agguanta la nostra ragione senza più mollare la presa. Peccato che il protagonista di questo film sia il male di vivere.

Siamo nella Los Angeles contemporanea delle feste e della bella vita. Rick (Christian Bale) è uno sceneggiatore hollywoodiano con molto successo nel lavoro e molto poco nella vita privata. Cercando di dare un significato a quest’ultima, passa da una donna all’altra in relazioni più o meno serie, vaga per festini dislocati in diversi angoli della città e convive col ricordo del fratello defunto e il difficile rapporto col padre.

knight of cups

Dopo essere stato “oscuro” nei film di Christopher Nolan, Bale diventa Il cavaliere di coppe (nei tarocchi metafora dell’uomo sensibile ben avviato nel suo percorso di crescita ma ancora non concluso del tutto), la prima di otto carte virtuali attraverso le quali Terrence Malick scandisce questo suo nuovo filmico viaggio interiore. Il regista dialoga con noi attraverso Rick, trasfigurandosi in un generico sceneggiatore depresso e cullato da voci interiori fuori campo, che quasi mai parla direttamente davanti alla videocamera. E quando ciò avviene pare comunque che la voce provenga direttamente da qualche meandro della sua stessa mente. Il punto focale è sicuramente lui, ma tutti noi risultiamo in qualche modo coinvolti da questo suo confuso cammino alla ricerca di ciò che ogni uomo sulla terra prima o poi, consciamente o meno, si domanda: ‘qual è il mio posto nel mondo?’. Una ricerca che quasi nulla ha a che fare con la razionalità. Un’analisi di se stessi che tende in continuazione alla ricerca di fatti, avvenimenti, persone che la mente nasconde e ripropone in maniera per noi totalmente casuale. Un pensiero apparentemente privo di linearità che nello stile anti-narrativo di Malick trova un mezzo davvero azzeccato per esprimere quell’insieme di emozioni che, furiosamente combinate tutte insieme senza alcun controllo, finiscono per assomigliare fortemente a pura e semplice apatia verso il mondo stesso.

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Lo stile di montaggio non-lineare del film riesce fisicamente a farci provare quel forte smarrimento in cui Rick rimane bloccato. Oltre a lui, sono pochi i personaggi che parlano direttamente in scena. Anche quando ciò accade, la maggior parte delle volte sembrano comunque far parte di quell’insieme di voci fuori campo che dominano l’intera pellicola, imprimendole un forte carattere incerto e auto-riflessivo. Un malessere indefinito che, più indirettamente, viene trasmesso anche dal modo in cui il regista ha avvicinato l’intera operazione agli attori. Consegnando il copione nelle loro mani solo poco prima di girare le scene, Malick ha affidato all’improvvisazione il compito di trasmettere con movimenti e gesti istintivi il disagio provato dal protagonista e la ricerca continua della strada giusta da percorrere per giungere a quella pace mentale tanto agognata. La stessa strada, fil rouge ed elemento collante di tutta la pellicola, che Rick percorre nel suo procedere da un capitolo all’altro e, in modo tanto banale quanto logico, diviene metafora del viaggio interiore che il protagonista (e noi insieme a lui) sta compiendo per venir fuori dalla situazione di immobilità emotiva iniziale.

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Attraverso il suo tocco inconfondibile Malick riesce, coscienziosamente o meno, in quello a cui tutti gli autori dovrebbero puntare: far provare al pubblico i medesimi sentimenti che i personaggi sperimentano sullo schermo. Un successo che però, visto il tipo di emozioni caratterizzanti la pellicola, si trasforma nelle nostre menti spesso in tedio, sfinimento e senso di vuoto. Un’opera che, per essere capita a pieno in tutti i suoi possibili significati, necessiterebbe di almeno una seconda visione (attenta) ma potrà ritenersi soddisfatta se i suoi spettatori resisteranno fino alla fine della prima.

Matteo Pioppi

PRO CONTRO
Lo stile di Malick risulta perfetto per raccontare il taedium vitae del protagonista, esprimendo attraverso voci fuori campo mentali e immagini visivamente d’impatto il suo stato di forte malessere… …peccato però che l’effetto sia così forte da suscitare in noi i medesimi sentimenti di noia, frustrazione e sconforto del protagonista.
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