La maschera di Frankenstein, la recensione

Il Barone Victor Frankenstein è in procinto di essere giustiziato e racconta al prete che è venuto a confessarlo la sua vicenda. Dopo la morte prematura dei genitori, Victor ha ereditato una grande fortuna e ha scelto come tutore il professor Paul Krempe con il quale ha condotto molti esperimenti di genetica. Ormai adulto, Victor, con il sostegno di Paul, decide di riportare in vita un essere umano composto con pezzi di diversi cadaveri, dopo che alcuni esperimenti di resurrezione su cadaveri animali sono andati a buon fine. Ma l’arrivo di Elizabeth, a cui Victor è promesso sposo, destabilizza la situazione, mettendo Paul contro Victor.

La maschera di Frankenstein è un film fondamentale per almeno due motivi.

Da una parte è il primo film che pone veramente la Hammer Film Productions all’attenzione del pubblico consacrandola in quegli anni a casa produttrice di horror per eccellenza. Dall’altra è una delle versioni più originali della storia di Frankenstein pur non facendo ricorso a orpelli narrativi che ne snaturino il materiale di base.

Ma andiamo con ordine.

La Hammer Film Productions era attiva dal 1935, tra periodi di ferma e altri di attività, producendo ogni sorta di film, dalle commedie ai film di spionaggio, con rare opere realmente memorabili in listino (tra cui il cult fantascientifico L’astronave atomica del dottor Quatermass). Fu solamente nel 1957 che si impose al pubblico con La maschera di Frankenstein, un grande successo commerciale che indirizzò definitivamente la casa di produzione britannica verso il genere horror – pur non tralasciando comunque incursioni in altre ‘zone’ cinematografiche. Fu grazie a La maschera di Frankenstein, dunque, che abbiamo in seguito potuto godere di veri e propri capisaldi del genere come Dracula il vampiro e La mummia, libere rivisitazioni dei classici horror della Universal, tutti interpretati dai ‘mostri sacri’ Peter Cushing e Christopher Lee, entrambi già presenti in questo primo film.

La maschera di Frankenstein, dunque, apre le porte al periodo horror della Hammer, plasmandone definitivamente i connotati di genere e intraprendendo quella via di svecchiamento delle icone cinematografiche, oggi come non mai imitatissima in campo produttivo (basti pensare alla Dark Castle e alla Blumhouse).

Per motivi legali, però, la Hammer non poteva riproporre il romanzo di Mary Shelley e le connotazioni che ne erano state date dal film Universal con Boris Karloff, così quello che sembrava un limite è diventato uno dei maggiori punti di forza del film della Hammer. Il divieto esposto dalla Universal ha così fatto in modo che lo sceneggiatore Jimmy Sangster (Dracula il vampiro, La mummia) scatenasse tutta la sua creatività per dar vita a uno script che si discostasse il più possibile dal romanzo (e quindi dal film del ’31) pur mantenendone inalterata la storia. Il risultato è sorprendente poiché si riesce a rileggere funzionalmente la vicenda sotto un punto di vista inedito che non è più quello del mostro come freak compassionevole e vittima di un uomo che vuole sostituirsi al Dio, bensì quello di uno psicopatico dalla lucida follia e della sua repellente creatura dall’indole bestiale.

Il vero protagonista della vicenda non è più il mostro, che qui viene lasciato decisamente sullo sfondo, ma lo scienziato, uno uomo dalla grande intelligenza e dall’assenza di morale, un mad doctor diverso da quelli fino ad ora passati sugli schermi che appare più umano e vicino allo spettatore malgrado venga descritto con connotati esclusivamente negativi. Ed è proprio la cura e l’approfondimento della figura di Victor Frankenstein a decretare la riuscita di questo film, un gran personaggio magnificamente interpretato da Peter Cushing, che poi riprenderà le vesti del barone in diversi film successivi. Inoltre, forse in pochi sanno che Cushing fu un rimpiazzo, poiché in origine il suo ruolo doveva essere interpretato proprio da Boris Karloff (poi dottor Frankenstein l’anno successivo in Frankenstein ’70).

La creatura, come si diceva, ha un ruolo marginale ed entra in scena solamente nella seconda parte del film. Forse questo aspetto potrebbe lasciare interdetto chi solitamente lega la parola Frankenstein esclusivamente al volto mostruoso della creatura, e in effetti il mostro rappresenta probabilmente anche l’aspetto più debole della vicenda. Svuotato dall’ “umanità” originaria, la creatura appare in questo film come un animale incapace del minimo autocontrollo, una macchina da guerra pronta a mietere vittime. Un mostro privo della sua forza evocativa, anche se è fin troppo chiaro che non fosse lui a interessare agli autori. Ad interpretare la creatura c’è Christopher Lee, ancora raro a ruoli da protagonista, e qui un po’ sprecato sotto un make-up poco convincente che alcuni aneddoti ci dicono essere stato improvvisato dal truccatore Philip Leakey per non ricordare quello di Boris Karloff (visto che gli avvocati della Universal erano sempre in agguato) e che veniva realizzato da zero ogni giorno sul volto dell’attore in assenza di una maschera fissa, basandosi esclusivamente sulle foto di scena. Poi c’è anche da dire che il volto cadaverico e sofferente di Boris Karloff è troppo impresso nell’immaginario collettivo e riuscire a replicarne la pregnanza senza rifarlo uguale era impresa ardua e forse realmente impossibile.

Alla regia di La maschera di Frankenstein c’è Terence Fisher, uomo di punta della Hammer che qui ci regala un’ottima performance soprattutto riguardo la direzione degli attori e nell’evocazione di un’atmosfera funerea e inquietante, supportata dalle buone scenografie.

La maschera di Frankenstein è, tra l’altro, uno dei primi film horror girati a colori e introduce la tendenza ad utilizzare immagini “forti” per l’epoca, come decapitazioni, mutilazioni e bulbi oculari estirpati, senza lasciare molto all’immaginazione. Scene che senz’altro oggi appariranno molto “soft” ma se contestualizzate potranno sicuramente rendere l’idea di quanto furono considerate scabrose all’epoca tanto che il film fu inizialmente bollato come “X rated” dalla commissione di censura britannica, ovvero il divieto solitamente attribuito ai film porno.

Il lavoro di Fisher non raggiunge la perfezione e l’evocatività del film di James Whale (ancora oggi ineguagliato) ma rimane comunque una delle migliori versioni del celebre romanzo di Mary Shelley, con un grande Peter Cushing e una libertà espressiva rara a quei tempi.

Da vedere assolutamente.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Una delle versioni migliori e più libere dell’immortale romanzo di Mary Shelley.
  • Peter Cushing magnifico e il suo Victor Frankenstein è molto iconico.
  • La figura del mostro e il suo make-up non convincono fino in fondo.
VN:R_N [1.9.22_1171]
Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
VN:F [1.9.22_1171]
Valutazione: 0 (da 0 voti)
La maschera di Frankenstein, la recensione, 8.0 out of 10 based on 1 rating

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.