Neon Genesis Evangelion: dove i robot si incontrano con la metafisica

Per rendere l’idea di quanto Neon Genesis Evangelion sia importante per l’animazione, basterebbe citare la polemica mediatica che due anni fa ha investito Gualtiero Cannarsi, storico adattatore dei film dello studio Ghibli: lo sventurato era stato ingaggiato da Netflix Italia per sostituire il doppiaggio della serie cult dello studio Gainax  che la Dynamic  fece nei primi anni Duemila ma i suoi intenti filologici hanno dato vita a un prodotto dai dialoghi barocchi, poco utile, a detta dei numerosi estimatori, a diffondere la “lieta novella” di Evangelion.

Fandom a parte, l’eredità di Hideaki Anno presenta una così vasta polisemia che è stata studiata e sviscerata in lungo e in largo da critici e studiosi internazionali; nel 2006 è stata anche creata la tetralogia cinematografica Rebuild of Evangelion, ora disponibile su Amazon Prime, per dare una rinfrescata e una nuova profondità alla trama della vecchia serie del ’95.

In un distopico 2015 il genere umano è sopravvissuto alla misteriosa catastrofe naturale del 2000 definita Second Impact e si trova costretto a combattere contro delle creature umanoidi piovute dal cielo, definite “angeli”; ha perciò fondato un’istituzione internazionale, la Nerv, che tramite i cari e vecchi “robottoni” cerca di distruggere i celesti invasori.

Gli onnipresenti mecha sono qui chiamati Evangelion, o Eva, e possono essere guidati solo da ragazzi quattordicenni che abbiano determinate caratteristiche genetiche; entra dunque in scena Shinji Ikari, figlio del comandante supremo della Nerv, Gendo Ikari. Shinji è un ragazzo molto insicuro; dopo la prematura scomparsa della madre fu abbandonato anche dal padre che dopo dieci anni decide di mandarlo “sotto armi”; fortunatamente viene affidato all’esuberante Misato Katsuragi, insospettabile comandante della Nerv, che se lo porta a casa e gli fa da mentore.

I primi dodici episodi della serie ricalcano il vecchio canovaccio di tutti gli anime action anni ’90: il pavido Shinji è catapultato in un nuovo ambiente, in cui è chiamato a essere l’eroe della situazione, e fra mille avversità impara a sincronizzarsi con la propria “arma” e con le altre due compagne di battaglia, le co-pilote Rei e Asuka.

Ma è il secondo nucleo narrativo che ha fatto fare il “botto” alla serie, tramite uno studiato intreccio di generi narrativi: la trama smette di ruotare attorno al Bildungsroman di Shinji Ikari e comincia a focalizzarsi sui personaggi minori, a cominciare dall’ex fidanzato di Misato, Ryoji Kaji, che indaga sulla Seele, la misteriosa organizzazione che sta dietro alla Nerv, e cerca risposte ad alcuni interrogativi rimasti irrisolti, ad esempio la vera causa del Second Impact. Lo svolgimento della trama thriller porta al finale metafisico che più metafisico non si poteva: i protagonisti scoprono che gli invasori sono attratti da ciò che viene nascosto nei sotterranei della Nerv e che la nascita del genere umano, degli Eva e degli angeli sono strettamente correlati; i dilemmi etici si sprecano e dopo vari psico-drammi Shinji riesce a trasformarsi nella figura messianica di cui l’universo aveva bisogno.

Ricordiamo che gli ultimi due episodi della serie canonica furono montati in fretta e furia a causa della mancanza di budget e sono stati “imbastiti” con i flussi di coscienze dei personaggi principali; il vero finale della serie fu quindi re-interpretato in due film usciti al cinema, Death & Rebirth e The End of Evangelion.

Ma Neon Genesis Evangelion è ancora di più di un mecha dalle tinte esoteriche: dopo che il divino Go Nagai regalò Devilman e Mazinga all’umanità, non c’era da stupirsi che trent’anni dopo il Giappone avrebbe portato alla luce un capolavoro di tale complessità; il colpo di genio di Hideaki Anno è stato quello di mettere al vero centro della storia la fragilità umana e incorniciarla con discorsoni filosofici, e per fragilità non si intende il momento di scoraggiamento dell’eroe che c’è in ogni action per adolescenti che si rispetti, ma di vere e proprie nevrosi che sono riflesse nel rapporto dei personaggi con i propri Eva.

È forse la prima volta che i mecha non sono solo armature ultra-tecnologiche ma un’estensione stessa della psiche dei propri piloti nonché incarnazione delle corrispettive, e disfunzionali, figure genitoriali. Ognuno dei tre protagonisti principali ha una battaglia da risolvere per trovare una stabilità interiore ed entrare in contatto col proprio Eva: Shinji deve sviluppare la personalità da adulto nonostante le carenze affettive della sua infanzia, Asuka deve elaborare il lutto della morte della madre e Rei deve trovare il proprio Io; d’altra parte gli “adulti” sono dipinti in maniera più miserevole: la loro missione per salvare il pianeta è solo una maschera per colmare i vuoti che non hanno voluto vedere e non è un caso che solo dei ragazzini “innocenti” possano guidare gli Eva e combattere contro gli angeli.

Lo sguardo dello spettatore è fatto coincidere con quello di Shinji: gli irrealistici paladini dal cuore puro che amano le battaglie sono messi da parte, il nostro protagonista avrà pure un animo buono ma è un inetto di sveviana memoria che piange, sviene e ha crisi d’identità non appena il gioco si fa duro – capita quando si combattono alieni giganteschi! – e preferisce struggersi in languide fantasie sulle donne che gli stanno attorno piuttosto che curare il proprio Complesso di Edipo.

Fra tutte le nevrosi freudiane della saga, infatti, non manca nemmeno quella erotica: Shinji convive con una donna attraente che non si vergogna dei propri appetiti, collabora con una misteriosa ragazza che sembra avere fin troppo in comune con la sua defunta genitrice e presto entrerà in competizione con una “straniera di fuoco” abbastanza sicura del proprio fascino.

Il character design di Yoshiyuki Sadamoto racchiude in filiformi profili personaggi di grande spessore, talvolta stereotipati ma più spesso con un’umanità verosimile, portavoci di un messaggio finale che è un’invidiabile dichiarazione d’amore per la vita.

Ilaria Condemi de Felice

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