Power Rangers, la recensione
Essere stati bambini o adolescenti negli anni ’90 implica essere in qualche modo venuti a scontrarsi con dei “mostri” televisivi come Beverly Hills 90210, Baywatch e Power Rangers. Il primo ha avuto un timido (e sfortunato) tentativo di reboot televisivo qualche anno fa; il secondo ha idolatrato a star del kitsch David Hasselhoff e Pamela Anderson e sta per tornare a nuova vita al cinema nei prossimi mesi; il terzo, in realtà, non è mai morto. La serie per ragazzi nata nel 1993 dalla Saban Entertainment, infatti, è andata avanti, di stagione in stagione rinnovandosi e cambiando team di continuo fino allo scoccare della 25esima stagione, quando arriva nei cinema anche una nuova versione, tirata a lucido per i giovani di oggi, che funge da reboot ai personaggi creati da Haim Saban e Shuki Levy.
Power Rangers nasce da un’idea ben precisa di proporre al pubblico occidentale un prodotto nato ad uso e consumo degli spettatori dell’estremo oriente. Si tratta del filone “super sentai”, creato indicativamente a metà anni ’70 e sviluppatosi con prepotenza tra gli anni ‘80 e ’90, in cui si raccontano le avventure di diverse squadre di eroi con poteri vari che si schierano contro le forze del male. La Toei Company è stata leader di questo genere ed è proprio da un loro format che proviene Power Rangers, capace di rielaborare perfettamente colori, stile e personaggi “sentai” cucendoli però addosso alle tematiche tipiche del teen-drama/teen-comedy americano.
Il progetto cinematografico di rilancio dei Power Ranger è nato nel 2014, quando Saban Entertainment e Lionsgate hanno deciso che i tempi erano maturi per rinnovare completamente e rilanciare il franchise che negli anni ha creato tanti proseliti in tutto il mondo. Con un budget di circa 100 milioni di dollari e una preproduzione abbastanza zoppicante, Power Rangers ha preso finalmente vita e ad assumersi la responsabilità di questo reboot è stato il sudafricano Dean Israelite, già regista del pregevole (ma non del tutto riuscito) Project Almanac – Benvenuti a ieri.
La trama di questo reboot è esattamente quella della prima serie televisiva: nella pacifica cittadina di Angel Grove, cinque studenti del liceo con diversi problemi di integrazione, entrano in possesso di cinque antiche pietre, ognuna con un colore differente, che rivelano loro la strada per un luogo segreto, dove scoprono di essere destinati a salvare la Terra. I cinque, infatti, divineranno Power Rangers, protettori di un antico cristallo che stabilisce l’equilibro tra i mondi, del quale vuole entrare in possesso Rita Repulsa, malvagia ex ranger desiderosa di conquistare l’universo.
In Power Rangers versione 2017 c’è tutto lo spirito della vecchia serie tv e, allo stesso tempo, il materiale ne esce completamente stravolto. Questo è un enorme punto a favore per Israelite e il suo film, perché è riuscito a scrollarsi di dosso quell’aria kitsch – tendente al trash, se vista col senno di poi – insita nei “sentai” pur mantenendo ben saldo il concept dei Power Rangers.
Il nuovo film, inevitabilmente, va a scontrarsi con le moderne produzioni dedicate ai super eroi dei fumetti e Power Rangers somiglia molto, troppo, a uno dei tanti cinecomix che raccontano la genesi del supereroe di turno. Una sorta di Fantastici 4, per rimanere nell’ottica della squadra, in versione teen che carica esponenzialmente l’attesa verso il climax finale con una massiccia sessione di “preparazione all’azione”.
E qui sta il difetto più grande di Power Rangers.
Il film di Israelite dura circa due ore, minuto più minuto meno, ma i Power Rangers entrano in scena dopo un’ora e quaranta minuti di “prendere consapevolezza dei propri poteri”. Un lasso di tempo davvero infinito, soprattutto se si considera che stiamo parlando di un prodotto già sedimentato nell’immaginario collettivo e quindi scevro di qualsiasi reale sorpresa. Questo squilibrio fa si che ne risenta moltissimo il ritmo, con un primo atto molto gradevole che ci accompagna ad Angel Grove facendoci conoscere un gruppetto di outsider tra i quali spiccano soprattutto Jason Scott (Dacre Montgomery) e Billy Cranston (Rj Cryler), il primo bulletto dal cuore d’oro, il secondo geniaccio autistico. In questa prima parte vengono rispettate le regole della giusta genesi dell’eroe che danno modo a Israelite di sbizzarrirsi con alcune interessanti trovate registiche, come il lungo piano sequenza che introduce il personaggio di Jason, e allo sceneggiatore John Gatins di scrivere dialoghi brillanti cuciti su personaggi neanche troppo banali.
Il lungo blocco centrale, però, rallenta in maniera estenuante il ritmo narrativo, con ripetizioni e una dilatazione delle situazioni che fa scrutare insistentemente l’orologio.
Finché arriviamo al gran finale che ci porta finalmente a conoscere i nuovi Power Rangers, ovviamente rinnovati nel look che li spoglia delle classiche (ma oggi ridicole) calzamaglie, per imbrigliarli in armature bio-meccaniche che fanno tanto Stark Industries. Non mancano i Dinozord, ne tantomeno l’iconico Megazord in una versione che lascia un po’ intravedere che forse erano terminati i soldoni. Così come delude il “mostro” contro cui i Power Rangers combattono nel finale, esteticamente privo di fantasia e rappresentativamente davvero poco incisivo.
Il ruolo della leonessa però è ricoperto dalla malvagia Rita Repulsa, interpretata brillantemente da Elizabeth Banks, che dà vita a una versione horror della strega che conosciamo, qui avvalorata da interessanti risvolti nel suo passato che ne motivano maggiormente la sua acredine nei confronti dei Rangers.
Cammeo nascosto dei Rangers originali e citazioni a più non posso dei moderni blockbuster, per un film che mescola la nostalgia con una vistosa voglia di rifondare un mito per catturare la nuove generazioni. Peccato per questo squilibrio di tempi e ritmi, il film poteva essere un qualche cosa di decisamente più riuscito dal momento che era stata trovata la chiave giusta.
Roberto Giacomelli
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