Qualcosa di buono, la recensione

C’è sempre stato tempo e spazio per raccontare i drammi delle malattie al cinema e poi, ormai si sa, queste storie piacciono molto all’Academy. Basta buttare un occhio agli Oscar appena passati: la vittoria come miglior attore e migliore attrice, rispettivamente Eddie Redmayne e Julianne Moore, è collegata a pellicole che raccontavano la storia di un grande uomo (La teoria del tutto) e di una grande donna (Still Alice) e soprattutto la loro forza nel combattere la malattia che li aveva colpiti.

Qualcosa di buono, tratto dall’omonimo libro di Michelle Wildgen, si ritrova su questo filone cinematografico ma cerca contemporaneamente di allontanarsene provando a raggiungere quella fusione tra coinvolgimento emotivo, dramma e spensieratezza che gli americani hanno riassunto con il termine “dramedy”.

La pellicola prova a fare quello che qualche anno fa Amore ed altri rimedi aveva fatto incredibilmente bene: il parkinson di Anne Hathaway è stato sostituito dalla SLA, l’amore dall’amicizia. Un’amicizia tutta al femminile che lega Kate (Hilary Swank), pianista di successo dell’alta borghesia a cui viene diagnosticata la SLA, a Bec (Emmy Rossum), una studentessa universitaria in piena crisi giovanile, con poche certezze e tanti dubbi riguardo ogni ambito della vita. Quando Kate deciderà di abbandonare (inspiegabilmente) la badante perfetta alla ricerca di qualcos’altro, troverà Bec sulla sua strada e il loro incontro cambierà per sempre le loro vite.

Dalle atmosfere che ricordano molto un Quasi amici in rosa, Qualcosa di buono non brilla per originalità a livello di scrittura e preferisce oscillare tra il vecchio ed il nuovo: fa l’occhiolino al “dramedy” americano grazie al personaggio di Bec (anche se si possono contare sul palmo di una mano le scene veramente riuscite) ma, osservandolo nel suo complesso, preferisce concentrarsi sul dramma della malattia. Se Still Alice cercava di ridurre al minimo le scene drammatiche preferendo l’amore e l’attenzione al quotidiano, e con Quasi amici l’ombra della malattia quasi spariva davanti alla forza dell’amicizia, Qualcosa di buono confeziona un drammone DOP. Inoltre, è un problema costare che tutte le scene che vogliono scatenare il singhiozzo e le lacrime nello spettatore appaiono in gran parte stereotipi del genere.

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I personaggi principali sono ben caratterizzati e risulta molto interessante l’evoluzione del personaggio di Bec la quale passerà da coprotagonista a protagonista in piena regola. La pellicola si concentra sull’indistruttibile amicizia tra queste due donne ma non era necessario stigmatizzare tutto ciò che le circonda: da un lato il marito di Kate (interpretato da Josh Duhamel) doveva essere approfondito molto di più e non essere lasciato in balia della condanna facile, dall’altro le amiche snob e la famiglia egoista creano un quadretto quasi surreale intorno al personaggio di Kate.

Qualcosa di buono è mantenuto in piedi dalle ottime prove attoriali delle protagoniste: Hilary Swank, in veste di attrice e produttrice, forse voleva puntare alla sua terza statuetta con questo ruolo (dopo le performance da Oscar di Boy’s Don’t Cry e Million Dollar Baby) e, anche se pensiamo che non sarà la volta buona, la sua interpretazione è senza dubbio uno dei motivi principali per vedere il film. Grazie alle sue doti recitative, l’attrice rende alla perfezione un personaggio dalle mille sfaccettature e non si ferma alla semplice malata di SLA. Emmy Rossum (per chi ha ottima memoria è la Christine de Il Fantasma dell’Opera mentre guardando ai giorni nostri è stata la protagonista di una delle serie più disoneste targata Showtime, ovvero, Shameless) sorprende e conquista senza remore. All’inizio della pellicola, Bec ricorda molto la Fiona di Shameless e ciò fa presagire subito il peggio, invece la Rossum si guadagna la nostra fiducia passo dopo passo, scena dopo scena, costruendo un personaggio che con tutte le sue contraddizioni e paure incarna il cuore stesso del film.

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Un cuore che si concretizza in un percorso di vita che lega due anime tra loro; un cammino che va oltre la malattia stessa e, come suggerisce il titolo originale You’re Not You, rappresenta la ricerca della vera identità delle protagoniste.

Matteo Illiano

PRO CONTRO
  • Hilary Swank ci regala la sua ennesima straordinaria trasformazione. Anche se non sarà Oscar, è sempre una garanzia.
  • Emmy Rossum porta a casa l’interpretazione della sua carriera. Promossa a pieni voti.
  • Alcune scene comiche rappresentano il “qualcosa di buono” della pellicola.

 

  • L’eccessivo dramma rende stereotipate alcune scene.
  • I personaggi secondari (marito compreso) sono lasciati ad una caratterizzazione di basso livello.
  • La scrittura parte da buone intenzioni ma si perde nel melodrammatico nel corso del tempo.

 

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