Carol, la recensione
Bis per Cate Blanchett che, con la sua bellezza e la sua bravura, è la regina di questa decima edizione della Festa del cinema di Roma; anche se percepiamo con malumore la sua assenza che avrebbe dato quel tocco in più alla festa, possiamo consolarci con i suoi ottimi film: dopo l’apertura di Truth diretto da James Vanderbilt, la Blanchett è protagonista di Carol, pellicola firmata da Todd Haynes e già apprezzata ed applaudita al Festival di Cannes.
Carol, tratto dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith datato 1952 (dato da non sottovalutare), racconta la storia d’amore di due donne nell’America glamour e “per bene” degli anni 50; la Carol del titolo è una donna alto borghese con un matrimonio e una figlia alle spalle; Therese è una giovane donna della classe popolare, timida ed insicura. Il primo incontro tra le due avverrà nel grande magazzino dove lavora Therese e basterà uno sguardo glaciale di Carol per far immobilizzare la giovane. Quest’ultima si ritroverà a mettere in discussione tutta la sua vita dopo questo incontro. La storia prende l’avvio con un lungo flashback, non formalmente definito, che porterà ad una struttura narrativa che prevede come punto di partenza e di arrivo la città di New York. Nella parte centrale, Carol assume le sembianze di un road movie e lo fa in maniera assolutamente funzionale e mai scontata.
Dietro la macchina da presa troviamo Todd Haynes, regista non particolarmente prolifico che con pochissimi titoli è riuscito ad affermarsi nel panorama cinematografico come uno dei grandi amanti e trasformisti del cinema classico americano: il melodramma, genere prediletto da Haynes, viene modellato sugli stilemi classici e riconfigurato con un preciso processo di attualizzazione del genere.
Carol ricorda per molti versi un altro film del regista, Lontano dal paradiso: la pellicola del 2002 con protagonista Julianne Moore è un film che grazie ad una cura impressionante per i colori e la scenografia può essere tranquillamente scambiato per un titolo di Douglas Sirk degli anni 40. Carol riprende il tema dell’omosessualità immergendolo in un contesto opprimente, razzista e repressivo come l’America degli anni 50.
Formalmente impeccabile, la pellicola basa la sua più grande forza proprio nella cura maniacale per tutto quello che la compone: i colori sono utilizzati in maniera espressiva eccellente, i costumi e l’intera scenografia ci fanno sognare questo mondo apparentemente perfetto. In realtà i colori brillanti, la moda ed il glamour nascondono tutto il marcio umano che Haynes, in maniera elegantemente delicata (senza urla e manifesti di alcun genere), riesce a portare alla luce. Lo stile registico è un piacere visivo assoluto: pulito e asciutto come un film classico hollywoodiano con guizzi artistici e movimenti di macchina che rendono la pellicola personale ed unica: tra le opulente abitazioni ed i bar di lusso, la macchina si muove sinuosamente ed alcune volte quasi si nasconde per osservare (o spiare) questa storia, questo amore che non può essere definito e raccontato in alcun modo. Un amore senza nome, forse perché la parola “omosessuale” non si può pronunciare a voce alta in quegli anni o forse perché una definizione sarebbe quasi riduttiva quando si parla di amore.
Di questo amore passionale e segreto sono protagoniste Cate Blanchett e Rooney Mara. La Blanchett riesce ad ammaliare non solo Therese ma anche tutti gli spettatori in sala con i suoi occhi e con le sue parole lente ed avvolgenti; l’attrice incarna perfettamente la donna alto borghese di quegli anni che tenta in tutti i modi di parlare ad un mondo che non la vuole né ascoltare né capire. Il personaggio interpretato da Rooney Mara rappresenta quasi l’opposto di Carol: una ragazza molto fragile che non sa cosa desidera veramente dalla vita. Le due attrici creano una brillante tensione stabilendo un sentimento non creato dalle parole ma soprattutto dagli sguardi.
Dare spazio alla forza degli sguardi e lasciare alle parole delle frasi lente e concitate è una scelta artistica affascinante ma complessa: gli occhi sono piacevolmente colpiti in ogni istante del film ma avremmo voluto che fosse stata spesa qualche parola in più, soprattutto per il personaggio Therese. Eppure nonostante i lenti dialoghi (affermazione da prendere non in senso negativo ma oggettivo), Carol riesce ad emozionare perché è in grado di mostrare l’amore in un momento storico in cui era considerato una malattia da curare. La sceneggiatura di Phyllis Nagy ha i suoi alti e bassi ma abbiamo apprezzato la definizione chiara dell’identità del film che, nella parte centrale, non diventa un Thelma & Louise sui generis ma mantiene tutto il suo carattere.
Carol è un film fatto di sguardi e di lunghi silenzi più di ogni altra cosa: i silenzi di un film che ha voluto mostrare un mondo esteticamente perfetto con un cuore marcio alla base ed un amore nascosto al quale basta un solo sguardo per palesarsi.
Matteo Illiano
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