Sola al mio matrimonio, la recensione

Pamela, giovane Rom insolente e piena di ironia, non assomiglia a nessun’altra ragazza della sua comunità. Vive con la nonna e la figlioletta, Bebè, in un villaggio innevato e poverissimo alle porte di Bucarest, ma sogna la libertà e mondi da esplorare. Rompendo con le tradizioni soffocanti del suo mondo scappa nottetempo alla volta dell’ignoto, per conoscere Bruno, uomo “incontrato” su un sito per matrimoni combinati, con il quale spera di sposarsi in Belgio, per cambiare il suo destino e quello della figlia.

Presentato alla 72ª edizione Festival di Cannes nella sezione ACID, Sola al mio matrimonio, primo lungometraggio di Marta Bergman, è stato acclamato a numerosi festival internazionali, tra cui il Rome Independent Film Festival, dove ha ricevuto la Menzione Speciale della Giuria ed il premio come miglior attrice, alla protagonista Alina Serbam.

Al centro della vicenda dove, diciamolo subito, non c’è nessun matrimonio (il titolo viene da una canzone cantata dalla nonna di Pamela, che parla di una donna prigioniera di un mondo senza prospettive e di un’unione senza entusiasmo e futuro), c’è l’audace percorso di crescita e rivalsa di Pamela. Una giovane donna determinata a prendere in mano la propria vita, costi quel che costi, partendo dai margini dell’Europa e della società.

Sola al mio matrimonio nasce come naturale “seguito” dei documentari che la Bergman ha realizzato in Romania. “Volevo che la mia storia prendesse la sua forza e la sua verità dal reale ma non volevo fare un film appiattito sulla realtà dei fatti. Inoltre – racconta la regista rumena di nascita, Belga di adozione – volevo rendere omaggio ad una comunità complessa, indecifrabile, ricca di persone piene di talento e umorismo. Da tutto questo è nato il personaggio di Pamela. Volevo rappresentare un personaggio che lo spettatore amasse per la sua audacia, la sua gioia di vivere e il suo desiderio di imparare. Ho voluto che il film trovasse la sua coerenza nel legame forte, che prosegue nonostante l’assenza, tra madre e figlia. Così come sua madre, la piccola Bebè fa parte di una tradizione di personaggi femminili che in diverse generazioni, fanno sentire con forza le loro voci. Il loro destino è alla base della storia che racconto”. 

Intenta a rincorrere i suoi desideri, Pamela, che è un po’ la versione gipsy di Emma Bovary, intraprende una serie di scelte discutibili e, a tratti, assolutamente insulse ma, si fa voler bene ugualmente dallo spettatore. Pamela rappresenta le migliaia di donne dell’est Europa che, ancora oggi, sognano di essere salvate da un buon matrimonio, approdando in occidente. Un solo bagaglio, tre parole di francese nel vocabolario e la viva speranza di poter cambiare a tutti i costi il suo destino. La nostra eroina balcanica ha solo questo, insieme ai sogni ed un vestito a fiori, appartenuto alla madre morta da qualche anno. Le si vuole bene anche se fa cose insensate!

Il ritratto della comunità Rom, soggetta a perpetue discriminazioni in Romania e nel resto del mondo, riesce a bilanciare con delicatezza il bisogno della regista di rappresentare la realtà senza filtri ed il rispetto da lei dovuto, in qualità di outsider, ad una cultura che non le appartiene. Per far ciò, l’uso della lingua romanì e la presenza di molti attori e comparse Rom sono scelte vincenti, così come la colonna sonora.

Il film è ambientato ai giorni nostri. L’Occidente e i suoi miraggi di una vita da sogno sono tangibili in tutte le scene girate in Romania. Nel villaggio di Pamela, in ogni casupola c’è un’antenna parabolica aperta sul mondo. Le informazioni televisive che testimoniano della crisi economica del mondo occidentale e delle espulsioni dei migranti non cambiano la loro percezione. Raccontando Pamela ed il suo viaggio, fisico ed interiore, tra l’est Europa e l’Occidente ancora benestante, Marta Bergman firma un’opera sincera e realistica, dal tono dolce e amaro al tempo stesso, delineando un ritratto emozionante e carico d’energia.

Attenzione però: l’energia che percepiamo è sempre quella della protagonista, in tutto il film, e non tanto dell’opera in generale che, se pur gradevole, non lascia proprio il segno.

Pamela è sempre al centro dell’inquadratura. Spiata e scrutata dalla telecamera simboleggia, da sola, con lo sguardo deciso e fiero, l’obiettivo del film: indagare la solitudine di una donna moderna ed il silenzio interiore riconducibile alle inquietudini di tutto un popolo. Raccontando il rapporto fra Pamela ed il timido e inerme Bruno (Tom Vermeir), la regista ha il pregio di non scivolare su rischiosi luoghi comuni, ma anche il difetto di non approfondire le contraddizioni di entrambi. Bruno è un personaggio talmente strambo e anomalo che meriterebbe uno spin-off tutto suo.  Non è mai chiaro, sin dalla prima scena in cui appare, se siamo difronte ad un inetto, un serial killer sull’orlo dell’esaurimento, un maniaco sessuale, un sociopatico o semplicemente un essere sottomesso dalla vita.

Alina Serban è bravissima e purtroppo, a tratti, è un po’ sprecata dalla messa in scena, onesta sì, ma priva di tensione! Oltre alla violenza sottile del mondo in cui Pamela si muove, non si scorge nel film la ferocia da sopravvissuta della protagonista.

Sola al mio matrimonio, in uscita il 5 marzo grazie alla distribuzione di Cineclub Internazionale (che nasce con l’obiettivo di distribuire in Italia film indipendenti, dotati di particolare forza espressiva e proiettati in lingua originale con sottotitoli) è, nel complesso, un film piacevole che non scade mai nel pietismo e nello stereotipo. La volontà di rendere omaggio alla cultura Rom, grande ricchezza dell’Europa, è tangibile e pregevole.

Ilaria Berlingeri

PRO CONTRO
  • La presentazione interessante della comunità Rom.
  • L’interpretazione di Alina Serban.
  • Le scelte a volte insensate della protagonista.
  • L’ambiguità di Bruno, il partner belga di Pamela.
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