Tesnota, la recensione
In queste torride notti di mezza estate, la struttura distributiva italiana ha un sogno ricorrente: trovare un’idea che possa riportare gli spettatori al cinema anche nei mesi di luglio e agosto (e non parliamo del cosiddetto Moviement). Uno di questi tentativi consiste nel ripescare film d’autore – magari molto apprezzati in prestigiosi Festival – che erano stati lasciati ad invecchiare come se fossero forme di Parmigiano-Reggiano.
Tesnota di Kantemir Bagalov è un esempio di quanto sopra; fece parte della selezione “Un Certain Regard” al Festival di Cannes del 2017 ed è in uscita in sala in Italia solo il prossimo 1° agosto grazie a Movies Inspired.
È il primo lungometraggio diretto da Bagalov, regista caucasico cresciuto sotto l’egida dell’eminente cineasta russo Alexander Sokurov. Tesnota è un film molto personale, ambientato (ma girato solo in parte) nella città natale del regista stesso e con didascalie iniziali che riportano informazioni reali.
La storia è ispirata ad un evento che riempì le cronache dei giornali. Siamo a Nalchik, nel Caucaso del nord, sul finire degli anni ’90. Una famiglia ebrea e una cabarda (popolazione locale) sono in qualche modo legate da affetti personali. La giovane Ilana (Darya Zhovner) ripara automobili nell’officina del padre mentre suo fratello minore David (Veniamin Kats) è in procinto di sposarsi con Lea. Le loro vite, insieme a quelle dei famigliari, verranno stravolte a seguito di un doppio rapimento con conseguente richiesta di riscatto.
Un’evenienza non insolita nella realtà caucasica di vent’anni fa.
Nella finzione, David e la futura moglie vengono strappati dall’affetto delle rispettive famiglie e l’intera comunità ebraica si mette in moto per poterli riabbracciare al più presto pur senza attivare le forze dell’ordine. Evidentemente la procedura fai-da-te, in questi casi, porta solo a dure conseguenze. Ci si spingerà verso soluzioni estreme e dagli effetti imponderabili.
Tutto si può dire di Tesnota tranne che sia un film banale; certamente non facile, autoriale, introspettivo, impegnativo e ai confini della realtà ma struggente e straziante.
Anche il formato scelto, che non è il consueto 16:9 panoramico, lancia un chiaro messaggio di distinzione. La ricerca e la cura con cui sono state scelte le inquadrature, le luci, i suoni ed ogni altro aspetto tecnico fanno intuire quanto il regista desiderasse immergere l’attenzione dello spettatore in un ambiente socio-culturale molto ben definito sia nello spazio sia nel tempo. Un cinema sussurrato, quasi sospirato che continua imperterrito ad abbassare la voce mentre procede nella drammaticità in un crescendo continuo. Anche gli inserti delle crudissime immagini televisive di repertorio – ma reali – contribuiscono a “disturbare” menti e cuori già duramente provati dallo svolgimento della storia stessa.
Non tutti sono attori e attrici di professione ma certamente della medesima estrazione culturale dei personaggi da loro stessi interpretati: ebrei e cabardi. Ogni dettaglio è studiato a fondo per comporre un quadro con contorni più reali del reale. L’impegno ad avvicinare il più possibile la finzione scenica alla vita vera è sicuramente il punto cardine di ogni fotogramma. Ne è una prova anche la continua ricerca dei particolari espressivi ottenuta con i ripetuti primi e primissimi piani dei volti di tutti gli interpreti; soprattutto di Olga Dragunova e di Artem Tsypin che vestono i panni dei genitori dei giovani protagonisti.
Marcello Regnani
PRO | CONTRO |
Ricercatezza e cura maniacale dei dettagli tecnici che arricchiscono una storia tanto drammatica quanto poderosa. | Film inadatto ad una visione superficiale. |
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