Jojo Rabbit, la recensione
Taika Waititi deve aver odiato i boy scout.
Un pensiero che sorge spontaneo osservando il piccolo Jojo (Roman Griffin Davis) alle prese con le insensatezze della Gioventù Hitleriana. Ma Jojo Betzler è disposto a sopportare ogni angheria, perché dalla sua ha un amico (immaginario) molto speciale: il Führer.
Waititi veste i panni di Adolf Hitler in Jojo Rabbit, una commedia lieve e grottesca, nella quale ogni risata è al servizio della crescita del protagonista. Non sono le gigionesche buffonerie di Waithitler a fare il film, quanto piuttosto la progressiva presa di coscienza di un bimbo appassionato di svastiche.
Jojo ha per l’ideologia nazista un’infatuazione squisitamente infantile. Il suo punto di vista detta i toni di tutta la vicenda. I paesaggi sono fiabeschi, wesandersoniani, se ci passate il termine (ma ci avete passato “Waithitler”, non dovrebbero esserci problemi). Complici le uniformi della Gioventù Hitleriana, il pensiero corre subito a Moonrise Kingdom.
Anche l’umorismo è stranamente innocente. Oggigiorno va molto di moda un certo edgy humour, irriverente (per usare un eufemismo), che mira ai temi scottanti, quelli che “c’è poco da ridere, quindi sghignazziamo”. Non che ci sia niente di male a sghignazzare, ma spesso nel farlo si perde di vista il punto: non “rido perché riconosco l’assurdità di questo dramma”, ma “sghignazzo perché hai detto una cosa che non si deve”. Il nazismo è tra i bersagli prediletti di questo genere umoristico. In Jojo Rabbit la risata non prende la via del cinismo. La vis comica si annida nei piccoli gesti, nella reiterazione, nelle risposte sagaci. Le risate che suscita sono gioviali e scioccherelle. Infantili, appunto. Questa levità stride fortemente con il contesto in cui si inserisce. I corpi impiccati dei combattenti della resistenza spiccano come qualcosa di incongruo in questa Germania dalle tinte pastello.
Una scelta certamente voluta, che riconferma Waititi come un regista capace di raffinatezza. Proprio nei piccoli gesti sceglie di nascondere gli omaggi e le citazioni: il movimento burattinesco in cui riecheggia il nostro Benigni, il calcetto à là Charlot.
Un plauso per la direzione degli attori: le occhiatine, le smorfiette, le micro-espressioni che caratterizzano la recitazione del giovane protagonista sembrano portare la firma del poliedrico autore neozelandese. Anche attori consumati come Scarlett Johannson (madre di Jojo) e Sam Rockwell (sfaccettato militare in congedo) offrono interpretazioni superiori alla media. Waititi stesso ha il grande pregio di non invadere il film con la sua presenza, pur avendolo scritto, diretto e interpretato. Il suo tipico sense of humour, quello sì è pervasivo, ma il personaggio di Adolf riesce a rimanere al servizio del protagonista, eclissandosi quando serve.
Un neo, a volerlo trovare, è la didascalicità di alcune scelte registiche (le scarpe rosse, su tutte) che rendono certe svolte della trama fin troppo telefonate. Non che il film sia in cerca di colpi di scena: tutto va più o meno come possiamo immaginare. La grandezza di Jojo Rabbit non sta nell’intreccio, ma nel farci ridere di cose di cui solitamente sappiamo solo sghignazzare.
Alessio Arbustini
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