The Green Inferno, la recensione

Presentato al Festival di Roma nel 2013 e poi bloccato dalla produzione per due lunghi anni, The Green Inferno arriva finalmente nei cinema, in Italia come Paese d’esordio, grazie a Koch Media e Midnight Factory. Il quarto film da regista di Eli Roth vuole essere un omaggio al cinema cannibalico italiano e lo fa alla maniera dell’autore di Cabin Fever, che in Hostel: Part II aveva dichiaratamente espresso la sua ammirazione per il cinema italiano di genere includendo in cammei Edwige Fenech, Luc Merenda e Ruggero Deodato, quest’ultimo – Re del Cannibal Movie – proprio nel ruolo di un cannibale.

Ma prima di addentrarci nell’inferno verde di Eli Roth, un piccolo ripasso sul glorioso filone del Cannibal Movie.

Diffusosi in Italia sul finire degli anni ’70 dopo il buon successo commerciale di Ultimo mondo cannibale di Ruggero Deodato, il cannibal movie ha radici in un sentimental-avventuroso di Umberto Lenzi, Il paese del sesso selvaggio, distribuito nel 1972 e incentrato più sull’innamoramento di Ivan Rassimov per l’indigena Me Me Lay che sull’aspetto cannibalico della tribù di cui l’avventuriero finisce prigioniero. Entrambi gli attori sono anche in Ultimo mondo cannibale, spacciato come sequel al film di Lenzi in alcuni mercati esteri, ma che di fatto pone le basi per quello che poi è caratteristico del cannibal movie, ovvero violenza estrema, scene splatter, nudità (comunque già abbondanti in Il paese del sesso selvaggio) e le tanto discusse scene di violenza sugli animali.

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Al film di Deodato segue un’avventura cannibalica della reporter più famosa del cinema erotico, la Emanuelle di Laura Gemser, che in Emanuelle e gli ultimi cannibali (1977) porta la giornalista dalla pelle d’ebano in Amazzonia a indagare su una tribù che pratica il cannibalismo. Lo specialista in commedie e polizieschi Sergio Martino ribatte con il bellissimo La montagna del Dio Cannibale (1978) e Ruggero Deodato torna sui suoi passi col vero capolavoro del filone, il celeberrimo Cannibal Holocaust (1980), che ridefinisce le basi del genere. Da quel momento il cannibal movie prolifica ancora di più e nell’arco di due anni arrivano ben sei titoli, tra cui il ritorno di Lenzi con due film – girati back-to-back – Mangiati vivi! (1980) e il riuscitissimo Cannibal Ferox (1981). In questo periodo il cannibal movie si estende anche fuori dall’Italia, con titoli come l’indonesiano Primitiv e lo spagnolo La Dea Cannibale di Jesus Franco. Gli ultimi fuochi sono accesi dai tardivi Schiave bianche, violenza in Amazzonia (1985) di Mario Gariazzo, Nudo e selvaggio (1985) di Michele Massimo Tarantini e Natura contro (1988) di Antonio Climati, tutti più vicini all’avventuroso che allo splatter a cui eravamo abituati. Prima che Eli Roth riaccendesse i riflettori su questo spassoso filone, il buon Bruno Mattei ha provato a rifare il cannibal movie con due film indipendentissimi girati nel 2004 nelle Filippine: Nella terra dei cannibali e Mondo Cannibale. Il primo è praticamente Predator con gli indigeni al posto del cacciatore alieno, il secondo un remake non ufficiale di Cannibal Holocaust.

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E arriviamo al 2013, quando Eli Roth finisce il suo personale omaggio al cannibal movie e a Ruggero Deodato in particolare, anche se il suo film ha molto a che fare con La montagna del Dio Cannibale di Martino. Iniziamo subito col dire che, malgrado il voler rifare un filone ben preciso, Roth di fatto realizza un film molto personale mettendo in The Green Inferno tutto il suo cinema e la sua visione americanissima dell’horror.

The Green Inferno è, in pratica, Hostel con i cannibali: ne presenta la medesima struttura e il marketing cerca di sfruttarne l’effetto da “film scandalo” allo stesso modo. Quindi preparatevi a ragazzotti poco più che adolescenti, yankee fino all’osso, che fanno e dicono cose sceme e finiscono torturati e trucidati uno alla volta come se fossero in un film slasher.

Se, inoltre, vi aspettate un Cannibal Holocaust: Atto secondo, rimarrete molto delusi perchè The Green Inferno è molto soft per gli standard del cannibal movie, così pulito tanto nel look degli indigeni quanto nelle scene di violenza, esageratamente splatter ma di quello splatter patinato caratteristico di certo cinema americano post 2000.

Tutto ciò non è eccessivamente un male, la pudicizia dell’operazione è bilanciata da un ritmo altissimo e da un senso ludico che rende la visione particolarmente piacevole. La prima parte, quella in cui il gruppetto di studenti attivisti si reca in Amazzonia per fare un sit-in contro il disboscamento di un’area verde, è di preparazione e dimostra di avere uno spirito satirico neanche troppo velato. Gli studentelli “figli di papà” si lanciano in quest’avventura per moda più che per ideologia, tra di loro c’è il timido, il viscido, la gelosa, la vegana (e qui la presa per i fondelli è doppia, visto il paradosso a cui andrà incontro il personaggio), il fattone e la verginella destinata a rimanere in vita di più; tipici stereotipi da teen-slasher che Roth si diverte ad applicare a un mood satirico che dona un’aria intelligentemente cazzona al film.

Poi la svolta cannibalica, con torture e scene splatter (almeno una è particolarmente efferata) che fanno la felicità del reparto make-up e prostetica. Purtroppo, lo script di Eli Roth e Guillermo Amodeo contiene almeno due momenti trash francamente evitabili, ovvero una scena fin troppo gratuita in cui uno dei personaggi si esibisce in una rumorosa evacuazione e un’altra in cui è la marjuana a giocare un ruolo chiave. Si tratta di scene che sicuramente servono a stemperare la tensione, perché si sa che inserire una risata tra un urlo e l’altro è la tattica migliore, ma questo tipo di risate da ragazzini scemi francamente stonano e basta.

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Con qualche caduta di stile, Eli Roth confeziona un gustoso b-movie che fortunatamente non è solo la riproposizione pedissequa di un filone che funzionava negli anni in cui fu pensato, ma aggiunge personalità autoriale, facendo di The Green Inferno un film dentro lo standard del regista di Hostel.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Diverte molto.
  • Un sottofondo satirico pienamente riuscito.
  • Riesce a non essere una semplice copia dei film che vuole omaggiare.
  • Fin troppo pudico per essere l’erede del cinema estremo.
  • Un paio di scene troppo trash.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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