Venezia 76. A Herdade (The Domain)
Prodotto da Paulo Blanco (attore e produttore portoghese con più di duecento film all’attivo), A Herdade presenta Joao Fernandes, il più grande latifondista d’Europa, che nel corso della sua vita si trova a fronteggiare cambiamenti politico-sociali nel Portogallo (dagli anni 40 ai giorni nostri) e alcuni sconvolgimenti che riguardano in primis la sua famiglia.
Molto importante per capire questo film è approfondire la sua ambientazione storica. Iniziamo negli anni 40, sotto la dittatura fascista, con il genero di Joao colonnello dell’esercito; in questo periodo la situazione economica è florida, le varie piantagioni rendono al proprietario molto bene, ma viene chiesto a lui di schierarsi a favore del regime, in quanto una delle personalità più di spicco nell’intero Paese. Arriva poi la rivoluzione dei garofani (1974), durante la quale i comunisti prendono il potere spodestando il regime precedente; così il potere economico della famiglia di Joao si vede ridimensionare notevolmente, tanto che questi è costretto a vendere parte delle proprie attività. Infine, arrivano gli anni 90, caratterizzati da una relativa stabilità politica (è arrivata la democrazia); il potere dei Ferandes è molto dimensionato, tanto che non riescono a far fronte alle spese per il mantenimento delle terre rimaste.
Ad accompagnare questo scenario c’è la parabola discendente dell’influenza e della potenza economica della famiglia, quella più personale dei singoli componenti della stessa. Molte complicazioni sorgeranno, mettendo alla prova il carattere deciso e molto forte di Joao.
Al di là della storia, interessante sotto diversi aspetti, vi è però da sottolineare come la sceneggiatura non sembra essere stata curata a sufficienza. Un paragone che verrebbe da fare è con un altro titolo, presentato lo scorso anno proprio al Festival di Venezia. Alludo a Il segreto di una famiglia, di Tarpero. Anche qui una famiglia ricca (in Argentina questa volta) che perde il proprio potere economico e deve fronteggiare una serie di drammi personali dei suoi componenti. La differenza con Trapero, però, è che nel film di quest’ultimo la sceneggiatura funzionava davvero, era molto forte e presente. Non c’erano dialoghi a vuoto, la vicenda scorreva fluida e lentamente. Lì infatti le questioni emergevano mano a mano che i minuti passavano, qui vengono presentati tutti assieme, con il risultato che in due ore e quaranta minuti di film, il regista è stato costretto a riprendere più volte le questioni lasciate aperte. Grande mancanza questa, a mio avviso, che penalizza altri aspetti decisamente più positivi, come la recitazione e la qualità della regia.
Da sottolineare un aspetto molto strano, che tuttavia non sembra penalizzare per nulla il prodotto finale: in questo film non c’è colonna sonora.
Roberto Zagarese
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