Dogman di Luc Besson, la recensione

Un camion fa un incidente sotto la pioggia, la polizia accorre sul posto: alla guida c’è un uomo in drag in stato confusionale, con addosso l’outfit rosa sfoggiato da Marilyn Monroe nella sequenza di Diamonds are a girl’s best friends (Gli uomini preferiscono le bionde). All’apertura del vano di carico, un branco silenzioso di cani di ogni razza fissa gli agenti con diffidenza. Si apre con queste premesse il caleidoscopico Dogman di Luc Besson, presentato in concorso all’80ª Mostra del Cinema di Venezia.

La storia si dipana sotto forma di flashback, nel corso del colloquio tra l’autista arrestato e la psicologa del carcere. L’uomo si chiama Douglas e ha alle spalle un’infanzia difficilissima: un padre e un fratello violenti, che si mantenevano con le lotte clandestine tra cani, lo hanno rinchiuso e costretto a vivere per anni nel recinto degli animali da combattimento. Douglas, con i cani, ha sviluppato un rapporto intenso e speciale: sono loro la sua famiglia, il branco che nei momenti di difficoltà non lo ha mai abbandonato.

Dopo un’aggressione da parte del padre, Douglas perde l’uso delle gambe e – costretto sulla sedia a rotelle – viene affidato ai servizi sociali. Gli salva l’infanzia un’educatrice, che riesce a trasmettergli un’autentica passione per il teatro e la recitazione. Douglas resterà invaghito di quell’unica figura di riferimento positiva, ricercandola una volta raggiunta l’età adulta per scoprire che la donna ha già un marito e una famiglia. Frustrato da questa rivelazione e dalla chiusura del canile per cui lavora, Douglas si rifugia con i suoi cani e i suoi sogni infranti in un edificio abbandonato: vive di espedienti, addestrando gli animali al furto, e di lavoretti saltuari – esibendosi in performance di lip-sync in un teatro di drag queen. Lo scontro a fuoco con una gang locale lo porta all’incidente in camion e all’arresto.

Un gigantesco Caleb Landry Jones sembra omaggiare l’Heath Ledger de Il Cavaliere Oscuro (Christopher Nolan, 2008) con l’interpretazione del tormentato Douglas e della sua parabola di emarginazione. Il “joker” in drag di Besson non agisce in nome del caos e del male, ma alla ricerca di un riscatto possibile, di un regolamento di conti con quella “divinità al rovescio” che non ha mai sentito al proprio fianco (l’appellativo dogman deriva da uno striscione affisso da suo fratello al recinto dei cani, che recitava In the name of God e che Douglas leggeva al contrario, da dentro la gabbia, con la scritta parzialmente coperta).

Un’intensa storia di dolore e isolamento che, con le differenze del caso, nel finale non può non ricordare l’epilogo tragico di The Whale (Darren Aronofsky, 2022):

SPOILER

Douglas si alza dalla sedia a rotelle e, con l’aiuto del tutore, si incammina verso una chiesa, uccidendosi consapevolmente con la frizione del proiettile incastrato nella sua spina dorsale da quando era bambino.

FINE SPOILER

Non mancano i momenti di divertimento: le scene d’azione dei furti dei cani sono davvero simpatiche e ben gestite. Il respiro di Dogman è però quello della tragedia shakespeariana, della grande tradizione drammaturgica che tanto aveva aiutato il protagonista durante l’infanzia. Douglas, nella nicchia del mondo drag, ritrova il gusto della performance e il piacere di indossare una maschera, per dimenticarti chi sei per un po’. E le commoventi sequenze di lip-sync in teatro, che lo vedono sul palco nei panni di Edith Piaf e Marlene Dietrich, restituiscono in modo iconico e indimenticabile il senso della sua maschera tragica.

Un grande e inaspettato ritorno di Besson, che si affida totalmente all’angoscia portata in scena da Caleb Landry Jones. E, questa volta, fa centro.

Dogman arriverà nei cinema italiani il 12 ottobre 2023 distribuito da Lucky Red.

Sara Boero

PRO CONTRO
  • L’interpretazione dolorosa e indimenticabile di Caleb Landry Jones.
  • L’ottima gestione di una storia difficile e strampalata, che nonostante gli elementi surreali nel rapporto con i cani non perde mai in tensione e crudezza.
  • Le sequenze in teatro, sia nei flashback d’infanzia con l’educatrice che nelle performance in drag: piccole gemme davvero emozionanti.
  • Qualche déjà-vu nelle scelte iconografiche, reso perdonabilissimo dall’originalità d’insieme del pastiche.
  • Lo sviluppo approssimativo del personaggio della psicologa, la cui storia famigliare dovrebbe fare da contrappunto a quella di Douglas, ma che resta marginale.
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