Saltburn, vampirismo sociale e poche sorprese

Una sontuosa tenuta nella campagna inglese, amore, morte, ossessione e vampirismo sociale: per la sua seconda prova alla regia, Emerald Fennell (già alla macchina da presa per Una donna promettente) sceglie di coinvolgere il pubblico in una lunga partita di Cluedo, sanguigna e a fuoco lento. Che nonostante l’ottimo setup, non decolla.

2006, Oxford. Oliver (un magnifico Barry Keoghan) è un ragazzo schivo e introverso, che fatica a integrarsi nel contesto universitario. Nella sua vita entra Felix Catton (Jacob Elordi): ricco, popolare, bello e carismatico, Felix ripaga un atto di generosità di Oliver presentandogli la sua cerchia di conoscenze. Il legame di amicizia tra i due si trasforma per Oliver in qualcosa di più: una morbosa ossessione, un’attrazione erotica mista a invidia per il più fortunato Felix.

Quando Oliver condivide con l’amico il racconto di un passato difficile e il lutto per la recente perdita del padre, Felix lo invita a trascorrere l’estate a Saltburn, la magione di famiglia. Dietro l’apparente perfezione delle vite dei ricchi Catton si nasconde un teatro di orrori: ipocrisia, carità pelosa, emozioni soffocate e invidie. L’accenno di satira sociale si respira per tutta la durata di Saltburn, senza mai scollarsi dalla superficie.

In questa cornice di solitudini, Oliver inizia a muoversi con atteggiamento predatorio: osserva le debolezze dei Catton, li blandisce e li seduce, insinuandosi a poco a poco nel contesto famigliare. Per conquistare il cuore del bel Felix o per prenderne il posto?

Le atmosfere strizzano l’occhio a Ritorno a Brideshead (2008, Julian Jarrold), ma anche al sontuoso La famiglia Winshaw (Jonathan Coe, 1994): un Cluedo autentico, che mette a nudo vizi e peccati della buona società inglese. Siamo però lontani dall’enigmatica e truce eleganza del romanzo di Coe: la Fennell in questa seconda prova punta all’eccesso. A una messa in scena roboante e gotica, che investe sulla composizione estetica e sulla direzione degli attori.

Il cast è (quasi) del tutto in stato di grazia. Barry Keoghan ha colto un’occasione ghiotta: dopo il Bafta per Gli Spiriti dell’Isola (che gli è valso anche diverse candidature prestigiose, tra cui Oscar e Golden Globe) in Saltburn ha la possibilità di esplorare un personaggio complesso, sempre sospeso tra il freddo e il caldo. Il cinico, spietato e appassionato Oliver: di cognome Quick, svelto, non Twist, a suggerire l’inganno della sua narrazione dickensiana.

Tra i membri della famiglia Catton spicca l’eterea Rosamund Pike, deliziosamente in parte nei panni di Lady Elspeth, a cui sono affidati alcuni dei momenti più neri e sfiziosi della sceneggiatura. Commenta annoiata la notizia del suicidio di un’amica: “Farebbe di tutto pur di attirare l’attenzione.”

Funziona, pur entro i confini del “già visto”, il racconto dei desideri dei personaggi attraverso un’esposizione della sensualità sempre al confine col feticismo cannibalistico, funziona l’eccesso, funzionano i corpi. Saltburn ha un unico, macroscopico, problema: l’inconsistenza della sceneggiatura. Il colpo di scena finale spiazza proprio perché presentato ingenuamente come un colpo di scena, invece che come l’ovvia e lineare conclusione già esplicita dalle premesse.

L’incertezza del racconto non si limita agli snodi narrativi ma al nucleo contenutistico stesso: la storia di Oliver ha il disperato bisogno di una direzione. È un’ossessione erotica finita in tragedia? È una parabola di riscatto? È un’allegoria sociale?

Saltburn sa solo quello che non è: una sorpresa.

Sara Boero

PRO CONTRO
  • Il cast, in generale ispirato e ben diretto, con un ottimo Barry Keoghan e una Rosamund Pike in grande forma.
  • Le atmosfere e alcuni momenti ben riusciti di umorismo nero.
  • L’ingenuità esasperante dello storytelling, in particolare nella gestione del climax e dell’epilogo.
  • La messa a fuoco incerta dei temi centrali, come se la sceneggiatura fosse ancora in una fase di lavorazione intermedia.
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