Biografilm 2017: Nothingwood, la recensione

“Il cinema o la morte” potrebbe sembrare solo una pomposa citazione facilmente utilizzabile come slogan per qualche campagna marketing, ma mai come in questo caso si avvicina alla realtà. Salim Shaheen scrive, produce, dirige e interpreta film in Afghanistan da diversi decenni, spesso rischiando l’incolumità personale in un paese in cui i conflitti bellici sono purtroppo all’ordine del giorno. Superano il centinaio le pellicole che Salim ha confezionato in tutti questi anni, film di qualità molto inferiore alla media occidentale, ma pregni di una profonda passione per il cinema e realizzati con un budget quasi nullo (da qui il titolo, in opposizione agli enormi budget utilizzati per i blockbuster di Hollywood).

Schietto, narcisista, loquace, autoritario, prepotente, verace. Impossibile non pensare a Salim Shaheen come un comandante in capo, eredità del suo passato giovanile nell’esercito. Un leader, un artigiano del cinema, che al grido di “azione” mette tutti sull’attenti con un misto di ordine militare e grido d’incitamento. Una pistolettata d’inizio corsa a cui senza difficoltà potrebbe seguire un lancio furioso di sassi contro il cameraman (spesso uno dei figli) se l’inquadratura non risulta di gradimento del regista. Ad accompagnarlo sono gli amici di una vita, che interpretano per lui i personaggi di ogni film.

Una figura imponente, tanto nel fisico quanto nel carisma. Un uomo dall’indole impetuosa che prende spesso l’iniziativa, non facile da avvicinare per la regista Sonia Kronlund. Nonostante sia quasi sempre presente nelle inquadrature, quest’ultima cerca di lasciare spazio al personaggio di Salim, libero di agire nei vari set che incontriamo durante il documentario. Il contributo della regista si limita a quello di una spalla che, attraverso le domande che pone a Salim, provoca il protagonista per poi tornare in disparte osservando le reazioni del diretto interessato. La Kronlund segue e racconta la quotidianità di Salim mentre quest’ultimo è intento a girare non uno ma due film in contemporanea, uno dei quali sulla sua stessa vita da ragazzo. Una produzione nella produzione che aggiunge a tutto il progetto un’ulteriore vena meta-cinematografica. Un documentario su un cineasta di serie b che dirige a sua volta un film biografico sulla sua stessa vita, base di partenza che riporta alla mente il burtoniano Ed Wood, del quale Salim pare a tutti gli effetti la controparte orientale.

C’è un punto in cui l’automobile di fronte a quella di Salim rimane impantanata, non permettendo a quest’ultimo di procedere. Il regista scende e, un po’ per scena un po’ per proseguire la marcia, insieme alla sua troupe aiuta a spingere la macchina in difficoltà. La camera indugia sul suo volto affaticato e subito la regista stacca su una scena simile di un film dello stesso Salim in cui quest’ultimo solleva letteralmente un’automobile da dietro in stile Incredibile Hulk. Un espediente che troviamo in altri punti della pellicola e che, oltre a conferirle un minimo di ritmo e vivacità, ci permette di dare un’occhiata all’effettiva qualità della sconfinata produzione di Salim. Lungometraggi che in nessun caso arriverebbero alla sufficienza ma, dando un’occhiata alla reazione entusiasta del pubblico afgano e allo status di icona che questi film hanno fatto raggiungere a Salim nel suo paese, viene da chiedersi in certi casi quanto davvero conti un giudizio negativo rispetto a una vera e propria acclamazione nazionale.

Matteo Pioppi

PRO CONTRO
Salim Shaheen e il suo metodo produttivo non-stop e passionale nei confronti del cinema a ogni costo, tanto raffazzonato quanto vitale. La regista fa il minimo indispensabile confezionando un documentario base in cui il protagonista non spicca certo per meriti cinematografici.
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