Dante, la recensione del film di Pupi Avati

Ravenna, 1321: dopo una vita trascorsa da esiliato, rinnegato e per lo più sottovalutato, esala il suo ultimo respiro Dante Alighieri. Trent’anni dopo, il poeta Giovanni Boccaccio, noto studioso e appassionato dell’opera dantesca, riceve un incarico molto delicato dalla confraternita fiorentina della Compagnia dei Laudesi: dovrà recarsi a Ravenna e consegnare dieci fiorini d’oro a Suor Beatrice, la figlia di Dante Alighieri nonché monaca a Ravenna nel monastero di Santo Stefano degli Ulivi. Quella somma in denaro, quei dieci fiorini d’oro, altro non sono che un risarcimento simbolico per quell’esilio ingiustamente subito da suo padre. Durante il lungo viaggio da Firenze a Ravenna, Boccaccio non può fare a meno di incontrare una serie di persone che hanno avuto il piacere di conoscere in vita Dante Alighieri. Il Dante uomo e non ancora il Dante leggenda. Molti ne parlano con stima, altri lo considerano solo un eretico che ha meritato il trattamento ricevuto. Grazie a questi incontri, a Giovanni Boccaccio viene data la possibilità di rivivere la giovinezza di Dante e di sapere di più circa quell’innamoramento ideale con Beatrice che ha portato il sommo poeta a scrivere il più grande componimento letterale di tutti i tempi. 

Non è facile parlare del film Dante, nuova regia per il grande schermo firmata da uno degli autori più prolifici, influenti e stimolati del nostro cinema: Pupi Avati.

La difficoltà nel parlarne scaturisce principalmente dal fatto che, ad onor del vero, affrontare un racconto cinematografico a tema “Dante Alighieri” non poteva che essere un’impresa tanto ardua e folle quanto quelle narrate nei poemi cavallereschi d’origine medievale.

Difficile, forse impossibile racchiudere e riassumere Dante e la sua immensa opera in un film dai tratti biografici che possa essere all’altezza di sfuggire tanto al didascalico quanto alla sterile fiction televisiva.

Dante

A rendere il tutto ancor più difficile da valutare in modo oggettivo ci pensa anche quel “famoso” legame – risaputo da tutti – che unisce proprio il sommo poeta all’autore bolognese. Sono tantissimi anni, infatti, che Pupi Avati esplicita la profonda volontà di realizzare un’opera dedicata a colui che, forse più d’ogni altro, ha gettato le basi su cui si erige tutta la cultura italiana odierna. Risale al 2003, infatti, il primo soggetto che Pupi Avati ha scritto per il suo Dante. Quasi vent’anni per mettere a fuoco il giusto modo di raccontare quel “poeta maledetto” che, fattosi protagonista dell’amore più platonico della Storia, si è posto al centro della più eclatante rivalutazione postuma di tutti i tempi.

Fatta questa inevitabile premessa, va da sé la difficoltà di poter analizzare in modo davvero oggettivo un film nato tra mille difficoltà, un film che si fa carico d’una responsabilità tale che non poteva far altro che gettare l’autore bolognese in una condizione quasi da ansia da prestazione. Dante è un film ostacolato da diversi difetti, qualcuno più evitabile di altri, eppure, al tempo stesso, è un’opera così personale e sentita da togliere qualsiasi dubbio sulla grandezza incontenibile di un autore nostrano che ha fatto la Storia del cinema italiano e che sembra avere ancora molto da dire.

Dante

Come si diceva, sono stati necessari tanti anni a Pupi Avati per individuare il modo più corretto e rispettoso di raccontare il poeta fiorentino e alla fine, dopo vent’anni e tanti altri film nel mezzo, Avati sembra aver individuato la strada più intelligente e interessante: raccontare Dante Alighieri senza raccontarlo; renderlo oggetto della narrazione anziché soggetto; farlo diventare il Santo Graal di un altro sommo poeta, Giovanni Boccaccio.

Una scelta coraggiosa, di certo non di comodo, sicuramente un modo – potremmo affermare scherzosamente – più dolce di suicidarsi. E nell’affrontare questo ostico racconto cinematografico Pupi Avati si fa carico di un’altra missione a dir poco impossibile, ovvero quella di raccontare il mondo di Dante Alighieri coniugandolo con la sua inconfondibile cifra stilistica.

E sotto quest’ultimo aspetto l’obiettivo non può che dirsi clamorosamente centrato.

Dante, infatti, è un film di Pupi Avati al 100%. Nei 100 minuti scarsi di durata, infatti, è riassunto tutto il cinema avatiano. Volendo mettere in piedi un parallelismo a dir poco forzato, potremmo affermare che Dante è, in un certo senso, “La Divina Commedia” di Pupi Avati.

Dante

Dopo I cavalieri che fecero l’impresa (2001), l’autore bolognese torna a sporcarsi le mani con il genere medievale ma questa volta ce lo racconta da un’altra prospettiva che, se vogliamo, è indubbiamente più interessante. Il medioevo che Avati ci racconta in Dante è un medioevo che non ha nulla di valoroso, né tanto meno di avventuroso, è un medioevo scarno e marcio, oscuro e pestilenziale. Un periodo storico in cui persino le fantasie più calorose e dolci sono inscenate con un piglio decadente e disagevole (basti pensare alle orrorifiche visioni che Dante ha nei confronti di Beatrice).

Ecco, dunque, che in Dante convivono magistralmente tutte e due le anime artistiche di Pupi Avati: il grottesco velato di nostalgia e l’horror rurale. Come nei suoi primi film, o nel piccolo cult dimenticato Le vie degli angeli, anche in Dante ci si abbandona ad una narrazione che assume spesso un tono grottesco, squisitamente carnale e a tratti sgradevole, nel delineare quel mondo del contado popolato da personaggi ghiozzi, esteticamente brutti e preda di pulsioni attribuibili solo agli animali. Ma a fare da contraltare a questo mondo contadino, tanto rude quanto bizzarro, ci pensa la seconda anima dell’autore ed ecco, dunque, che con grande sorpresa Pupi Avati trasforma il suo Dante in un film che attinge moltissimo a quel gotico padano che ha fatto di Avati una delle voci più autorevoli e rispettabili circa il cinema horror Made in Italy.

Dante

In Dante si respirano molti odori che sembrano giungerci direttamente da L’arcano incantatore, Avati ci racconta perciò il medioevo di Alighieri e Boccaccio attingendo a quelle note horror che sono da sempre tanto care a certo suo cinema. Nel film c’è un’aura magica che si mescola con il folclore popolare, con le superstizioni e con le credenze religiose. Avati ci immerge in un medioevo dominato da un pensiero religioso chiuso che porta la gente ad avere paura, un periodo buio che è travolto da malattie che conducono le persone a marcire a poco a poco, uno spaccato storico in cui anche le cose belle riescono ad avere un’aura sinistra.

In questo racconto di Giovanni Boccaccio alla scoperta di Dante Alighieri, in questo bizzarro film on the road che ha come fine ultimo quello di incontrare una donna sospesa tra realtà e leggenda, Avati esprime tutto il suo più profondo rispetto nei confronti di un Dante Alighieri che è stato un uomo ancor prima di un poeta, ma anche nei confronti dell’Arte in senso decisamente più ampio. Questa precisa volontà mette Avati nella condizione di tornare a sperimentare, staccarsi da quel realismo che ha caratterizzato tutte le sue opere più recenti (compreso l’horror Il Signor Diavolo) per tornare ad abbandonarsi ad un cinema che non ha paura di osare. Sotto questo punto di vista Dante è indubbiamente il film più artistico, tra quelli recenti, partorito dell’autore de La casa dalle finestre che ridono. Pupi Avati si abbandona ad una messa in scena visionaria, a tratti persino estrema, in cui la realtà dialoga spesso con la fantasia e in cui i quadri si “animano” nell’inseguimento di una messa in scena che possa essere tanto ricercata quanto straniante.

Dante

Tutto sembra funzionare a perfezione eppure, come si diceva in apertura, Dante è un film ostacolato da più di qualche difetto.

Liberamente ispirato al libro di Giovanni Boccaccio Trattetello in Laude di Dante, il maggior problema che affligge quest’ultima opera di Avati è individuabile in una sceneggiatura (scritta dallo stesso Avati) che finisce per voler dire troppe cose in poco tempo. E questo potremmo considerarlo il male inevitabile nel narrare un film su Dante Alighieri, in qualsiasi sua forma.

Pupi Avati, forte del fatto che ha tra le mani un poeta ampiamente imposto nella formazione scolastica, compie una scelta che forse era necessaria o forse no: dà per scontata la vita di Dante Alighieri. Di conseguenza, il film, trova un suo equilibrio quando si sofferma sulla missione di Giovanni Boccaccio, ma appare spaventosamente frettoloso e pasticciato nei momenti in cui ci trasporta nei flashback dedicati alla vita del giovane Dante.

Il primo incontro da bambino con Beatrice, l’innamoramento adolescenziale, la morte dell’amata data in sposa ad un altro e poi il suo successivo arruolamento nell’esercito. Ma anche l’amicizia con il poeta Guido Cavalcanti, la scomunica per volere del Papa Bonifacio VIII e la devozione alla scrittura de La Divina Commedia. Tutti passaggi importanti nella delineazione della figura di Dante Alighieri che, purtroppo, essendo ridotti ad una manciata di flashback (come detto, il film non arriva a 100 minuti) danno l’idea di una grande confusione narrativa. Tutto è estremamente veloce, ogni cosa accade perché deve accadere, nulla viene approfondito come sarebbe stato giusto fare.

Questo approccio sbrigativo e semplificativo alla vita di Dante, oltre a raccontarci male il sommo poeta, porta all’inevitabile conseguenza di “rubare” spazio prezioso alla vicenda di Boccaccio.

Dante

Affidandosi ad una performance straordinaria di Sergio Castellitto che nel film interpreta Boccaccio, Pupi Avati sfoggia un cast di tutto rispetto che vede coinvolta l’algida Carlotta Gamba (America Latina) nel ruolo di Beatrice e Alessandro Sperduti in quelli di Dante da ragazzo. A loro si aggiungono una serie di nomi cari al cinema di Avati come quello di Alessandro Haber, nel ruolo di un frate che non si è ancora ricreduto su Alighieri, e quello di Gianni Cavina qui alla sua ultimissima interpretazione. In ruoli secondari ma sempre convincenti troviamo anche Paolo Graziosi, anche lui alla sua ultima interpretazione, Enrico Lo Verso e un gigantesco Leopoldo Mastelloni che interpreta in modo sublime Papa Bonifacio VIII.

Dopo Il Signor Diavolo e Lei mi parla ancora, Pupi Avati torna ad un cinema chiaramente più ambizioso. Dante è un film imperfetto, un’opera gigante che lascia trapelare tanto l’amore di Avati verso il tema affrontato quanto la sua paura di non essere all’altezza di quest’importante e singolare missione. Pupi Avati, dunque, diventa una sorta di alter-ego del suo Giovanni Boccaccio, personaggio che per tutto il film è pervaso dalla paura di non essere pronto all’incontro con Suor Beatrice per farsi portavoce delle scuse di Firenze.

Se è stato o meno all’altezza della sua missione è difficile dirlo. Quel che è certo è che Dante, pur nelle sue imperfezioni, ha la forza d’essere un film capace di lasciare il segno nella filmografia di un regista immenso quale Pupi Avati.

Giuliano Giacomelli

PRO CONTRO
  • Pupi Avati torna a confrontarsi con un racconto ambizioso e d’ampio respiro.
  • Raccontare Dante Alighieri sposando il punto di vista di Giovanni Boccaccio è una trovata saggia e interessante.
  • Un’opera che racchiude tutta la poetica di Pupi Avati e che, inaspettatamente, non disdegna la componente horror.
  • Sergio Castellitto offre una grande interpretazione.
  • La volontà di dire troppe cose in poco tempo, con inevitabile conseguenza di servire un racconto spesso superficiale.

 

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One Response to Dante, la recensione del film di Pupi Avati

  1. Roberta Malagola ha detto:

    Ho visto il film di Pupi 2 volte. È da vedere e rivedere. Da ascoltarne il dialogo, da osservare i dettagli e immergersi nell’epoca storica così ben raccontata in tutta la sua umanità. Son d’accordo nel fatto che questo film manifesta l’interezza poetica di Pupi Avati. Un film unico.

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