America Latina, la recensione

I fratelli trentenni Fabio e Damiano D’Innocenzo continuano a decostruire le periferie laziali alla ricerca del torbido che si annida nelle famiglie italiane, nel marcio che cresce nell’animo umano senza distinzione di classe, età, sesso e credo politico. Dopo il fulminante esordio noir de La terra dell’abbastanza (2018), ambientato nel quartiere periferico di Roma East Ponte di Nona, il pluripremiato Favolacce (2020), che faceva sua la periferia romana dei quartieri residenziali, si passa all’Agro Pontino di America Latina, opera numero tre che si avvicina sicuramente più alle atmosfere del loro precedente film per svilupparsi, però, in territori diametralmente opposti.

Massimo è un dentista quarantenne, ha una bella moglie, due figlie, una villa con piscina immersa nel verde e si concede, come unico “vizio”, una birretta di tanto in tanto con il suo caro amico Simone, che invece versa in difficoltà economiche. Una sera, Massimo scende nella cantina della sua abitazione e la sua vita improvvisamente cambia: la paranoia comincia a crescere e i ricordi si fanno sempre più frammentati fino a insinuare nell’uomo il tarlo del dubbio, sugli altri ma anche su se stesso.

La vaghezza della sinossi è voluta perché America Latina scopre le sue carte un poco alla volta stordendo lo spettatore con un evento clou a pochi minuti dall’inizio ma lasciandolo nell’incertezza fino alla fine. Il punto di vista è quello di Massimo, interpretato da un eccezionale Elio Germano, un uomo realizzato che ha trovato la sua “America” grazie a una famiglia modello e un lavoro che gli consente di vivere nell’agiatezza. Però Massimo ha qualche cosa che non va, lo percepiamo immediatamente che la sua vita scricchiola già solo scorgendo da dietro i cespugli la sua villa, un mostro d’architettura primi anni ’90 che tra rampe colorate, piscine trascurate e facciate trasparenti racchiude un forte senso di grottesco, di disagio.

Il ritrovamento fortuito, o presunto tale, di Massimo nella caotica cantina di casa apre un mondo di possibilità narrative che i gemelli D’Innocenzo decidono di snocciolare nel modo più ermetico. La linearità e, se vogliamo, la semplicità narrativa di America Latina va così a ramificarsi in uno sviluppo volutamente ambiguo dove ogni certezza progressivamente cade e quell’ “America” cercata e trovata pian piano di allontana, si fa confusa e vira di nero, verso l’incubo. Massimo diventa paranoico, sospetta delle sue amicizie, dei suoi affetti, perfino di se stesso e guarda con drammaticità a quei buchi di memoria che si verificano sempre più spesso nella sua testa; inoltre capiamo che il suo rapporto con il padre è ben più che conflittuale, c’è qualcosa nel passato che non torna e il sua gelosia verso la figlia diventa preoccupante, così come il suo interesse per la cronaca nera televisiva.

I fratelli D’Innocenzo costruiscono un thriller psicologico che si spinge fino ai territori dell’horror, manipola ogni certezza dello spettatore per scaraventarlo nell’incubo a occhi aperti di un uomo qualsiasi: Massimo è così anonimo che può essere tranquillamente ciascuno di noi, un volto senza lineamenti nel quale si può specchiare ogni spettatore. E questo è dannatamente inquietante.

Se c’è una cosa che scricchiola nel terzo film dei fratelli registi è il finale, una chiusa che cerca di stupire senza che ce ne fosse realmente bisogno, un quadro così nero e disperato che trovava proprio nella sua banale normalità il dato più mostruoso e che, invece, al netto della conclusione, fornisce una spiegazione non richiesta riabilitando/scagionando qualcuno, ma lasciando funzionalmente il contesto nell’incubo più spaventoso.

Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2021, America Latina si mostra come un’opera complessa e sicuramente matura che ci dice ancora una volta, dopo Favolacce, quanto i D’Innocenzo amino il cinema di Yorgos Lanthimos e stiano seguendo un percorso autoriale molto interessante che si oppone fermamente all’ottica consolatoria troppo frequente nel cinema italiano.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Perturbante e affascinante.
  • Elio Germano, bravissimo in un ruolo affatto semplice.
  • Visivamente molto curato, sia per quanto riguarda la regia che la bella fotografia di Paolo Carnera.
  • L’effetto Shyamalan del finale non era necessario, la storia fa già sufficientemente paura.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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