Devilman Crybaby: quando Go Nagai inventò il “Mai-una-gioia”
Nel 1972 il mangaka Go Nagai (Mazinga, Ufo Robot, Jeeg Robot) cominciò a pubblicare sul Weekly Shonen Magazine, rivista edita dalla prestigiosissima Kodansha, uno dei manga più innovativi e amati dalla critica internazionale: Devilman.
Il successo dell’opera portò subito la Toe Animation a creare una serie animata che si ispirasse al manga di Nagai ma che ne livellasse i lati più crudi; e fu con questa serie che crebbero gli appassionati di anime negli anni ’80-’90.
Il 5 gennaio 2018 Netflix presenta sulla propria piattaforma una nuova serie sull’ Uomo-Diavolo, stavolta più fedele alla trama ma ambientato nel Giappone contemporaneo e diretta da Masaaki Yuasa (Vampiyan Kids, Ping Pong the Animation, Adventure Time).
Akira Fudo è un ragazzo dolce ed emotivo; dato che i suoi genitori sono spesso in viaggio per il mondo perché sono medici di fama mondiale, vive presso amici di famiglia, i Makimura, la cui figlia Miki è sua compagna di scuola. Un giorno Akira, in difficoltà con alcuni teppisti, viene salvato da un suo vecchio amico di infanzia, Ryo Asuka, che gli rivela di voler documentare l’esistenza dei demoni: i due giovani quindi si recano a un sabba/rave party dove vengono evocati dei mostri e Akira viene posseduto dallo spirito di uno dei diavoli più potenti dell’inferno, Amon. La purezza di cuore del ragazzo, tuttavia, non permette che il demone prenda il sopravvento sulla sua personalità, quindi il nostro protagonista si trasforma in un Devilman, ovvero un uomo che ha poteri diabolici ma che riesce a controllarli e a usarli a proprio piacimento.
Akira acquisisce un fascino maligno e diventa il corteggiatissimo bad boy della scuola ma non smetterà di fare ricerche assieme a Ryo per difendere la sua città dalle creature infernali.
Sarebbe bello se la trama, così come fu la serie animata degli anni ’70, si riducesse semplicemente a una costante lotta fra Devilman e le forze del Male, ma d’altra parte, se così fosse, non potremmo saggiare tutta la profondità e la crudele bellezza dell’opera originaria di Nagai.
Dopo i primi cinque episodi della serie la situazione comincia a degenerare – lo spettatore comprenderà quanto l’espressione “Mai-una-gioia!” sia inflazionata – sino al tragico finale in cui il tipico pessimismo della cultura giapponese del secondo dopoguerra, periodo in cui nacque e crebbe l’autore, raggiunge il suo apice.
Sia il manga che l’adattamento Netflix lasciano il pubblico con grandi interrogativi sulla natura del Male: com’è possibile che un essere mezzo demone abbia più cuore di alcuni esseri umani? Sono i mostri che possiedono gli umani o gli umani lasciano loro una via di accesso scegliendo volutamente la strada cattiva? Perché delle brave persone devono soffrire così tanto? Le Forze del Bene dove sono?
La cupezza delle atmosfere del manga è acuita da alcuni elementi negativi della società contemporanea quali l’uso eccessivo di droga, social network, smartphone e pornografia; gli adattatori dell’anime hanno fatto un eccellente lavoro adattando le nevrosi della gioventù d’oggi con i caratteri originari dei protagonisti, cosicché essi appaiano più attuali che mai.
Akira è una sorta di Superman violento e ipersessualizzato che ripulisce le strade da loschi approfittatori e demoni le cui caratteristiche peculiari ricordano molto quelle dei malviventi di cui leggiamo tutti i giorni nei quotidiani.
La grandezza dei contenuti di questo nuovo adattamento tuttavia non è bastata per suscitare la totale approvazione del pubblico e della critica: messa da parte l’esplicitezza di alcune scene, uno degli aspetti più ostici si è rilevato nella grafica della serie.
Il tratto vagamente ghiblesco e filiforme dei protagonisti è forse stato scelto per creare un voluto contrasto con i lineamenti rotondeggianti dei demoni – così come la colorazione compatta e quasi priva di ombreggiature fa il suo buon lavoro nella caratterizzazione delle forze del Bene e del Male – ma l’eccessiva stilizzazione di alcune immagini induce nello spettatore solo un senso di superficialità nella cura delle tavole.
Devilman è forse uno dei pochi prodotti in circolazione in cui non vengono in alcun modo giustificate le azioni dei “cattivi”: sia demoni che esseri umani sono tratteggiati, graficamente e caratterialmente, in modo da risultare repellenti (quasi come il taglio di capelli di Ryo) e in particolare come se fossero delle bestie in preda ai più bassi istinti invece che dei fascinosi ammaliatori.
Le pecche della direzione artistica tuttavia non sono una scusa per perdere questa commuovente e cupa opera, che ci restituisce uno dei gioielli imprenscindibili della tradizione fumettistica degli anni ’80.
Ilaria Condemi de Felice
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