Eli, la recensione
Chi ha detto che Netflix è riservato soltanto agli amanti delle serie tv? Il colosso americano dello streaming, infatti, ha negli ultimi tempi allargato i propri orizzonti, inserendo nel proprio catalogo tanti lungometraggi appetibili ad un pubblico più vasto. Il genere che, al pari di quello fantastico, si è più messo in evidenza in tal senso è senza dubbio quello horror grazie a titoli come The Haunting of Hill House, gli spagnoli Veronica e Influenze maligne e altri i cui risultati hanno attirato e in parte soddisfatto gli appassionati del genere e non. A provare a rinsaldare questo sodalizio vincente arriva Eli, il nuovo film di Ciaràn Foy il quale, dopo Citadel e Sinister 2 con cui è diventato famoso al grande pubblico, cerca la definitiva consacrazione con un film del terrore dalla trama accattivante, ambientazioni spaventose e un cast nel quale spiccano due giovanissimi protagonisti come Charlie Sotwell (Capitan Fantastic) e una delle star di Stranger Things Sadie Sink.
L’esito di questo terzo lungometraggio del regista americano, reduce anche dall’avventura del succitato Hill House, in realtà si rivela convincente solo in parte poichè Eli, seppur ben confezionato e girato con stile, risulta stereotipato nei contenuti e nel modo di creare tensione, risultando così bello da vedere ma anonimo e dimenticabile.
Il piccolo Eli è affetto da rarissime allergie che gli impediscono di uscire di casa e di conseguenza di instaurare rapporti umani e vivere quelle esperienze riservate a tutti gli altri ragazzini della sua età. Disperati dopo tante cure andate male, i genitori del piccolo decidono di affidarsi alle mani di una dottoressa i cui metodi e strutture all’avanguardia sembrano poter porre fine al calvario di Eli. Ma la clinica, da possibile luogo di rinascita, si trasforma ben presto in un incubo senza fine per il protagonista, minacciato dai fantasmi presenti nella casa e da inquietanti segreti.
Alcune volte basta spulciare il percorso artistico di un regista per capire a quale tipo di film si sta per andare incontro. Un metodo che, seppur in qualche occasione viene smentito in positivo o in negativo, in questo caso funziona dal momento che Eli fotografa in pieno la cifra stilistica di un regista ancora in cerca di una sua identità e che sembra ancora fin troppo ancorato agli horror “stile Blumhouse”. Il lavoro di Foy, infatti, appare, come detto in precedenza, ben confezionato e reso gradevole da atmosfere inquietanti e una veste fotografica e visiva accattivante in alcuni tratti, ma privo di quel quid in più grazie al quale compiere il salto di qualità e che scarseggia anche in altri titoli già apparsi su Netflix. Ciò che manca è proprio la volontà di osare ed esplorare strade nuove e coraggiose, cosa che porta il film ad avere due caratteristiche negative non da poco: da un lato una trama dai risvolti e colpi di scena telefonati e scontati per uno spettatore che mastica un minimo il genere horror; dall’altro una gestione della tensione molto scolastica basata sui soliti scricchiolii di pavimenti e sbalzi sonori che sanno di già visto.
Una serie di luci – poche – e ombre – tante e non di poco conto –che caratterizzano un horror di certo non definibile brutto o non riuscito nel complesso, ma senza dubbio rivolto molto di più ad un pubblico vasto che agli appassionati del genere che sicuramente storceranno il naso e resteranno delusi da un film dalle buone potenzialità mal sfruttate.
Vincenzo de Divitiis
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