Enea, la recensione

Nel 2020 salutavamo con un accogliente pacca sulla spalla I Predatori, esordio alla regia di Pietro Castellitto, vincitore del premio Orizzonti per la sceneggiatura alla Mostra del Cinema di Venezia, del David di Donatello come opera d’esordio e di due Nastri d’Argento per l’attore non protagonista e l’opera prima. Quello era un film imperfetto, acerbo, ma genuino e furente, parole d’apprezzamento che non mi sento di condividere per l’opera seconda di Castellitto Jr., Enea, presentata anch’essa alla Mostra del cinema di Venezia, ma nella selezione ufficiale, e dall’11 gennaio 2024 al cinema con Vision Distribution.

Infatti, se I Predatori era acerbo ma genuino, come su detto, Enea è ancora una volta acerbo, soprattutto nella scrittura, ma affatto genuino, anzi inutilmente artificioso, autocompiaciuto e tronfio tanto nella messa in scena quanto nella delineazione dei personaggi. Ma soprattutto è un film in cui il regista, dal primo all’ultimo minuto, sembra voler dimostrare qualcosa a qualcuno. Il buon Pietro Castellitto ci urla quanto sia capace, quanto il suo successo sia svincolato da “scomodi” legami di parentela ma generato da un talento autentico. E in parte è senz’altro così; ma, come dicevano i Frankie Goes to Hollywood in Relax (in un altro contesto) “Relax, don’t do it”.

Enea (Pietro Castellitto) è un giovane borghese romano che condivide con il suo amico d’infanzia Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio) la passione per la movida. Figlio di uno psicoterapeuta (Sergio Castellitto) che ha imparato a controllare la sua rabbia e di una nota conduttrice televisiva (Chiara Noschese), Enea è entrato in un giro di spaccio di cocaina insieme a Valentino, che ha appena ottenuto il brevetto di volo per aerei turistici e deve accudire la madre depressa che ha da poco tentato il suicidio. Ma, come tanti romanzi criminali ci insegnano, non è facile uscire puliti dall’ambiente in cui Enea e Valentino si sono andati a impantanare. O meglio: non è facile uscirne. Punto.

Ed è proprio da un dialogo sulla famiglia borghese, con una famiglia borghese, che si apre Enea scoprendo volutamente le carte fin dai primissimi minuti. Perché quello di Pietro Castellitto di base è proprio un bulimico attacco a questo ambiente, al suo ambiente, un contesto che conosce, in cui è cresciuto, in cui vive, che gli ha dato fama e fortuna e che – paradossalmente – odia tantissimo.

Il suo, però, sembra essere diventato un odio di accondiscendenza, una sorta di rassegnazione da cui trarre vantaggio; ma si tratta pur sempre di una rassegnazione minata dall’autodistruzione, esattamente come accade al protagonista del film interpretato dallo stesso Castellitto.

Enea si muove con estremo disinteresse nel suo habitat cercando il brivido in un’attività criminale che svolge in maniera del tutto incosciente, come se non fosse consapevole delle conseguenze che può generare.

È la borghesia, baby, la dannata borghesia dei figli di papà che pippano coca, fanno festa ogni sera, si scopano le donne che desiderano, si sentono invincibili e hanno il mondo ai loro piedi!

Ma in questo ambiente popolato da Ultracorpi non c’è Amore, i baci sono uno spazio nero tra una scena e l’altra, le frasi romantiche sembrano suggerite da Chat GPT e l’autenticità è del tutto assente. Quell’autenticità che manca anche nel film.

Si viene a creare un ambiguo cortocircuito per il quale i personaggi di Enea rispecchiano perfettamente un preoccupante vuoto trasmesso dall’intera opera. Il vuoto è voluto, dunque, i personaggi sono perfettamente funzionali all’intento, ma il film rischia di crollare su sé stesso. Vengono a mancare delle fondamenta narrative forti perché il tutto è in funzione della satira di costume adagiata su una esilissima crime-story. È come se il Paolo Sorrentino de La grande bellezza si fondesse con i Fratelli Coen delle crime-comedy meno riuscite e il risultato fosse un Frankenstein debole e sofferente che ostenta una personalità autoriale per procura.

Enea vive di singoli momenti molto suggestivi, basti pensare alla scena in macchina con Adamo Dionisi (ma ogni volta che c’è in scena lui il film acquista quota), l’attentato nel ristorante di sushi, la fuga dall’ospizio e il volo in aereo, oppure tutta la sequenza finale; ma è nel suo insieme che non funziona affatto. Sembra mancare un collante tra questi momenti e seppur ci sia una bella mano dietro la macchina da presa, per lo più intenta a ostentare – spesso gratuitamente – quella bravura di cui sopra, è la scrittura che non convince per niente: così artificiosa nei dialoghi, così episodica nel racconto, così sfiancantemente grottesca nella descrizione dei personaggi.

Una enorme lancia va spezzata in favore di Sergio Castellitto, che nel film interpreta il papà di Enea e che dà vita ai momenti attorialmente migliori del film, con il suo gigantesco mestiere e l’innato senso di adattabilità.

In conclusione, Enea è un’opera seconda che arriva troppo presto nel percorso artistico di Pietro Castellitto, un film dalle ambizioni ben maggiori di quello che effettivamente può permettersi e, di conseguenza, appare acerbo, a tratti perfino ingenuo. Qua e là funziona, questo è innegabile, ma vista nel suo insieme è un’opera schizofrenica e pasticciata.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Il film vive di singole sequenze riuscite.
  • Sergio Castellitto.
  • La scelta di alcune canzoni popolari nella colonna sonora e come sono state contestualizzate.
  • La scrittura, come tenta maldestramente di unire la satira con il corpus narrativo del film.
  • L’ostentazione continua di mezzi e capacità, anche lì dove non era richiesto.
  • Manca di autenticità e, di conseguenza, può creare un muro con lo spettatore.
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