FEFF23. Limbo, la recensione

Soi Cheang in Limbo ci mostra una Hong Kong come non l’abbiamo mai vista prima, una città bagnata costantemente dalla pioggia, umidiccia, ritratta in un bianco e nero molto saturo e, soprattutto, avvolta nella spazzatura, nella sporcizia che tracima da ogni vicolo, nel sudiciume. In Limbo Hong Kong non è mai chiamata con il suo nome, non ci sono monumenti caratteristici che possano indicarci l’ubicazione geografica dell’azione, eppure dalle panoramiche aeree si tratta proprio dell’inconfondibile città cinese della cosata sud, località di produzione del film.  

Presentato in anteprima nazionale al 23° Far East Film Festival di Udine, Limbo (Ji Chi, in originale) è un thriller nichilista, stilizzato e ultra-violento, un ritorno per Soi Cheang alle atmosfere disturbanti di Dog Bite Dog (2009) contaminate con gli eccessi visivi dei suoi horror di inizio carriera (Horror Hotline… Big Head Monster e New Blood).

Prendendo ispirazione dal romanzo Wisdom Tooth di Lei Mi, Limbo racconta l’indagine della polizia sul ritrovamento di mani mozzate di giovani donne. Il caso è affidato al veterano Will Ren, un detective disilluso e dai metodi poco ortodossi che individua subito una matrice comune nei delitti: c’è un forte odore di spazzatura sugli arti ritrovati e dalle analisi risultano appartenuti a prostitute e tossiche. A Ren viene affiancato il giovane neo-detective Cham Lau che cerca di apprendere dall’esperienza del collega e di resistere all’insopportabile mal di denti che lo sta attanagliando. Quando la strada dei due detective si incrocia con quella di Wong To, ladruncola e spacciatrice che vive di espedienti e ben conosce il sottobosco cittadino, Ren, che con la ragazza ha un grave conto in sospeso, decide di utilizzarla come esca per attirare il serial killer a cui stanno dando la caccia.

LIMBO

Se un film riesce a risultare altamente affascinante e, allo stesso tempo, a mettere a disagio lo spettatore probabilmente abbiamo a che fare con un grande film. Limbo mette sulla stessa bilancia questi due aspetti per dar vita a un prodotto di genere dal grande valore artistico, una visione autoriale del thriller/horror che non dimentica mai il suo essere, innanzitutto, intrattenimento. Per farlo, strizza l’occhio al cinema di Hollywood, porta in scena personaggi che in qualche modo riflettono le dinamiche del thriller americano, del buddy-movie, mostrandoci la classica coppia di “sbirri”, il poliziotto buono e quello cattivo, la matricola e il veterano, quello ligio delle regole e l’altro pronto a infrangerle alla prima occasione. Dinamiche consolidate, quasi archetipiche, che nel contesto utilizzato da Soi Cheang diventano fonte di personalità per il regista per conferire alla storia un’impronta autoriale che disintegra immediatamente ogni convenzione.

LIMBO

Il “good cop” interpretato da Lam Ka-tung è volenteroso ma la sua inesperienza lo porta continuamente a sbagliare fino a metterlo seriamente nei guai: non si tratta dell’eroe senza macchia e senza paura, ma di un realistico trentenne, impacciato e finito in una storia che non sa gestire. Per di più, martellato da un dolore di denti causato dallo spuntare del dente del giudizio che si fa metafora della sua crescita, come uomo e come poliziotto.

Il “bad cop”, invece, che ha il volto sofferto e sofferente di Mason Lee, non solo se ne frega delle regole e agisce ai limiti della legalità, ma è mosso da uno spirito di vendetta che lo rende quasi pari al serial killer. La sua back-story è tragica, quasi ai limiti del parossismo melò tipico dei drama cinesi, ma la sua reazione è dura, rancorosa, di grande rabbia che sfocia in una violenza ingiustificata. Per lui la ricerca del killer passa quasi in secondo piano, la sua attenzione è tutta su Wong To, una ragazza fragile e indifesa, la sua paradossale nemesi con la quale non c’è assolutamente parità nello scontro fisico che si viene a creare.

LIMBO

La stessa Wong To, interpretata dalla fenomenale Cya Liu, è la vera protagonista della vicenda, un personaggio con il quale è difficile empatizzare e che, nelle quasi due ore di durata del film, subisce così tante violenze da portare lo spettatore davvero a distogliere lo sguardo in più di un’occasione. Una colpevole, colpevolizzata all’estremo e messa costantemente nella condizione di pagare per i suoi torti con pene sempre maggiori, quasi intrappolata in quel Limbo di sofferenza a cui fa riferimento il titolo.

In tutto questo c’è anche un serial killer feticista (delle mani), deforme, con un passato edipico poco chiaro che sembra quasi fare eco a Santa Sangre di Jodorowsky, per di più di nazionalità giapponese come a sottolineare l’annosa rivalità tra Cina e il Paese del Sol Lavante.

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Soi Cheang ci va pesantissimo con il livello di violenza, la sua visione del thriller “a la Seven” è estrema e sfiora l’horror con momenti davvero tosti da mandare giù, spesso ai danni di giovani donne. Il senso di squallore, di sporcizia è accentuato dalle complesse scenografie ricolme di spazzatura, vicoli zuppi di pioggia che traboccano di sacchi di immondizia, fiumi di rifiuti ovunque, cadaveri putrefatti che spuntano dalle inquadrature e un fetore, in senso olfattivo, percepibile anche dallo spettatore. Ad unirsi a questo anomalo lirismo scenografico c’è l’eleganza di un bianco e nero stupendo, inutile alla storia ma funzionale alle atmosfere, che dona una grazia a tutta la mostruosità portata in scena.

Limbo non è assolutamente un film per tutti, può disturbare e dar fastidio e allo stesso tempo essere amato. Ma una cosa è sicura: non lascia indifferenti.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Un bianco e nero mai così lirico.
  • Il film gioca (benissimo) sui contrasti.
  • Personaggi per nulla banali.
  • Cya Liu bravissima in un ruolo davvero difficile.
  • La violenza estrema verso le donne sicuramente può infastidire qualcuno.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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