Florence, la recensione

Una delle astuzie più abusate dal marketing cinematografico contemporaneo riposa nell’espressione “tratto da una storia vera”. Una formuletta motivata da esigenze di cassetta che aggira il più basilare dei basilari principi che sorreggono il cinema, ovvero che una bugia ben orchestrata, congegnata attorno all’autenticità dell’emozione che conta sempre più e sempre prima di qualsiasi presupposto fattuale è di per sé più vera del vero. Lo spunto alla base di Florence origina da quella inusuale combinazione di umorismo tragedia farsa e ridicola stravaganza che è propria della vita oltre lo schermo.

È troppo caotico e non abbastanza “addomesticato” per servire adeguatamente, sbucando così dal nulla, la fantasia di uno sceneggiatore. Non è credibile come ispirazione, ma funziona come suggerimento. Merito va dunque al lavoro di Nicholas Martin, sceneggiatore, e di Stephen Frears, regista, nell’essere riusciti ad imbrigliare una tranche de vie decisamente singolare e a trasformarla in un racconto di successo proprio per via della sua eccezionalità, con effetti talora inquietanti, anche un po’ tristi magari, e spesso molto divertenti.

Florence è un buon film, tratto da una storia vera. Va detto senza virgolette e a maggior beneficio del pubblico questa volta.

New York, 1944. Florence Foster Jenkins (Meryl Streep), ricca ereditiera animata da una devozione sconfinata per il canto, patrona della scena musicale newyorchese, filantropa, organizzatrice di tableaux vivants, mette alla prova le sue abilità canore a beneficio dell’ élite cittadina, forte della convinzione di un talento fuori dal comune. Il che è singolare perché la povera Florence, che riuscirà addirittura ad esibirsi alla Carnegie Hall, di talento non ne ha neanche un po’. La sua voce è disgustosa, un mix esilarante di note prese per un soffio, grida insensate e acutissime e un’assoluta mancanza d’orecchio. La peggior cantante del mondo, a spanne.

Meryl Streep le regala un’irresistibile carica di vitalità e tenerezza, e una tecnica mostruosa che accompagna stonature epocali. Gli spettacoli di Florence sono semplicemente disgustosi in quanto ad esecuzione, ma né il pubblico né l’artista sembrano preoccuparsene troppo. Merito degli sforzi patetici ed eroici del buon Bayfield St. Clair, un Hugh Grant loser deliziosamente divertente, attore fallito di sangue blu il quale, come se la situazione non fosse già abbastanza assurda, sposa Florence, convive stabilmente con un’altra donna (Rebecca Ferguson) ma riesce ad essere ugualmente un marito devotissimo. Spargendo una provvidenziale cortina fumogena sulla mediocrità canora della moglie, e ricorrendo ad una miriade di espedienti, dalla rigidissima selezione del pubblico alle mazzette ai critici, riesce a mantenerne integra la purezza dei sogni e delle aspirazioni.

Stephen Frears si conferma un’abilissimo ritrattista. Con Florence, oscillando continuamente fra il registro della commedia e un accenno di dramma – bisogna ricordare che il soggetto in questione era già stato trattato da Xavier Giannoli con Marguerite (2015) – offre una riflessione su temi quali passione, talento e fallimento. La storia di un uomo e di una donna uniti da una passione sconfinata, una notevole capacità di mentire a sé stessi e, soprattutto da parte di lei, un’onestà delle intenzioni che combinata alla modestia dei risultati offre un quadro risolutivo tragicamente esilarante, per niente credibile eppure carico di simpatia e umana comprensione. Come in una storia vera.

Francesco Costantini

PRO CONTRO
Simon Helberg, pianista di Florence, prima visibilmente sconcertato poi complice, offre un ottimo accompagnamento (non solo al pianoforte) alla coppia Streep – Grant. Il film avrebbe potuto indugiare di più, e meglio, sui risvolti grotteschi della vicenda.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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