Hatching – La forma del Male, la recensione
“C’è del marcio…in Scandinavia”. Questa battuta, parafrasata dall’Amleto di Shakespeare, sintetizza nel migliore dei modi la nuova stagione dell’Horror made in Nord Europa. Negli ultimi vent’anni, infatti, gli appassionati del genere hanno potuto gustare tanti gradevoli titoli provenienti da paesi freddi ma, a quanto pare, decisamente caldi in quanto a ispirazione e gusto nel raccontare storie di terrore e incubi ancestrali. Una nouvelle vague nordica che ha come caratteristica principale quella di vantare al suo interno due correnti autoriali, caratterizzate da un approccio al genere opposto sia per obiettivi che per target di pubblico.
Da un lato, infatti, abbiamo film che hanno come protagonisti zombie famelici, mostri assassini e gruppi di adolescenti che si rifugiano in baite di montagne, come accade, ad esempio, nei due Dead Snow di Tommy Wirkola o in titoli come Lake Bodom; dall’altro, invece, vi è un altro gruppo film, più folto e di moda allo stato attuale, nei quali gli stilemi del genere vengono utilizzati per realizzare opere dalla vena decisamente più autoriale e intrise di tematiche profonde e di spessore. Sono un esempio, in tal senso, prodotti come Lasciamo entrare, Thelma e il recente Lamb.
C’è chi, poi cerca di fondere tali approcci e ha come obiettivo quello di creare lavori che sappiano sia strizzare l’occhio al pubblico più commerciale, sia condurre lo stesso spettatore alla riflessione. È il caso, questo, dell’esordiente Hanna Bergholm la quale pesca a piene mani dalla tradizione del body horror di cronenberghiana memoria, per sviluppare una storia ricca di spunti e incanalata su binari narrativi interessanti, quali il tema del doppio e la critica ad una società attuale ossessionata dal successo ad ogni costo e propensa a mostrare solo il suo lato perfetto e immacolato. Hatching – La forma del male, dunque, si rivela un film che sa spaventare al punto giusto, impressiona grazie a immagini molto forti ed efficaci, e coinvolge chi guarda grazie ad una sceneggiatura solida e perfetta nel tratteggiare personaggi e situazioni ben oltre il limite del grottesco.
Tinja è una dodicenne la cui crescita è tutt’altro che spensierata a causa di un contesto familiare lindo e felice solo in apparenza e, in particolare, per colpa di una mamma che ha una relazione parallela e che obbliga la figlia a sacrificare amicizie e momenti di vita da ragazzina per concentrarsi anima e corpo su un’improbabile carriera da ginnasta.
La vita di Tinja, e non solo, cambia nel momento in cui la protagonista trova nel bosco vicino casa un uovo misterioso che libera una creatura mostruosa e capace di creare con la piccola un legame nefasto per la giovane ginnasta e le persone che la circondano.
Hatching – La forma del male, come detto sopra, rappresenta forse uno dei migliori esempi di compromesso tra cinema horror di intrattenimento e la propensione a raccontare, tramite gli stilemi del genere, la società dei nostri tempi e le storie di solitudine e di disagio rintracciabili al suo interno. Uno stato di malessere che la brava Bergholm riesce a delineare grazie ad una storia semplice e lineare, solo in apparenza, e ad una caratterizzazione di personaggi molto diversi fra loro, ma al tempo stesso complementari all’interno della sceneggiatura scritta dalla stessa regista insieme a Ilja Rautsi.
Il grande pregio delle due autrici, infatti, è quello di portare sullo schermo personaggi tratteggiati in maniera profonda e accurata insieme ad altri più superficiali e monodimensionali, senza però rendere il plot sbilanciato e riuscendo a creare dialoghi e situazioni sempre ben calibrati e funzionali al suo svolgimento. Innegabile, tuttavia, che le due figure principali siano le donne, la piccola Tinja e sua mamma, le quali, pur partendo da una condizione diversa, vanno incontro ad un disastroso destino. Quest’ultimo derivante da una comune voglia di apparire e di accontentare il parere altrui: Tinja, infatti, vuole a tutti i costi realizzare i sogni della mamma, andando contro a quella sua voglia di leggerezza e spensieratezza tipica della sua età; la mamma, da par suo, trova un suo sfogo artificioso in dirette social improbabili per il suo blog, durante le quali mostra una famiglia felice e perfetta, cosa ben distante dalla realtà dei fatti.
Una patina di finzione dalla quale la ragazzina cerca di sfuggire attraverso questo uovo da cui nasce un mostro che altro non è che il suo lato oscuro, la sua vena ribelle e di rottura con un contesto famigliare per lei deludente, oppressivo e privo di qualsiasi forma di affetto vero e sincero. Tra i due nasce un apparente rapporto di amicizia, forse il primo della vita di Tinja, che però a poco a poco si rivela marcio, malato e nocivo sia per la giovane protagonista che per le persone a lei vicine, e tradotto in immagini da numerose scene di tensione ben costruite e rese nel migliore dei modi grazie a trucchi realistici e per questo inquietanti.
Su tutti, in tal senso, va sottolineata la progressiva trasformazione del mostro in una figura simile alla piccola Tinja le cui movenze bestiali e brutali ricordano i body horror di stampo classico nei quali il tema del doppio è trattata con immagini forte ed esemplificative e il lato oscuro prendeva il sopravvento su quello misurato e convenzionale.
Nonostante qualche freno di troppo sul versante della violenza, unica piccola sbavatura del lavoro di Bergholm, Hatching si configura come un film ben riuscito e adatto ad un pubblico di gusti ed esigenze differenti.
Vincenzo de Divitiis
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