Il diritto di opporsi, la recensione

just mercy

Gli Stati Uniti d’America sono stati uno degli ultimi Paesi al mondo, a livello federale, a sancire in Costituzione l’abolizione dello schiavismo. Era il 1865 e se la legge ha riconosciuto agli africani d’America questo passo avanti nella storia della civiltà umana, gli USA sono stati comunque celebri in tutto il mondo per leggi razziali che non hanno fatto altro che porre un gap enorme tra bianchi e neri, alimentando per oltre un secolo quello che ancora oggi molti afroamericani pagano caro per il semplice fatto di avere la pelle di un colore differente generando un odio intrinseco ormai incolmabile. Gli Stati Uniti d’America, terra d’opportunità, che al di là di questo enorme paradosso è comunque un esempio di integrazione e melting pot, una torre di Babele che ha avuto con successo un Presidente afroamericano ma che testimonia nel XXI secolo ancora episodi di clamoroso razzismo. Perché quel razzismo è sedimentato in alcune frange della società e genera episodi che appaiono assurdi se analizzati con l’occhio di una società moderna e civile. È quanto ci viene raccontato nel film Il diritto di opporsi, tratto dal libro inchiesta Just Mercy di Bryan Stevenson, avvocato afroamericano che ha dedicato tutta la sua carriera a difendere uomini di colore finiti del braccio della morte.

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Il film diretto da Destin Daniel Cretton (Il castello di vetro) ci presenta Bryan Stevenson ancora alle prime armi, fresco di laurea in giurisprudenza ad Harvard che cerca una sua dimensione nell’ambiente professionale che ha scelto. Per questo motivo studia casi nelle carceri dell’Alabama non immaginando di imbattersi nella storia di un uomo che avrebbe per sempre cambiato la sua vita e il suo lavoro. Bryan decide infatti di difendere Walter McMillian, conosciuto in paese come Jonnhy D., un boscaiolo di colore accusato dell’omicidio di una ragazza bianca sulla base di una testimonianza di un pregiudicato (bianco anche lui), probabilmente estorta dallo sceriffo. In pratica nessuna prova tangibile se non le parole di un uomo, eppure Johnny D. è stato condannato a morte. Bryan prende a cuore la storia di Walter e riesce a far riaprire il caso, ma non sarà facile il percorso intrapreso per dimostrare l’innocenza dell’uomo, considerando soprattutto il profondo razzismo di cui è impregnata la società del sud degli Stati Uniti in cui avere un colpevole a volte basta, a maggior ragione se è di colore.

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La storia raccontata in Il diritto di opporsi prende il via nel 1988 e si sviluppa negli anni 90, trent’anni fa, un’epoca recentissima eppure intellettualmente “antica”, come se anni e anni di battaglie per riconoscere i diritti civili degli afroamericani siano stati gettati alle ortiche. Una vicenda di profonda ingiustizia, di pregiudizio legato a dinamiche di lombrosiana memoria (per l’accusa basta “guardare in faccia” l’accusato per stabilirne la colpevolezza), di razzismo sedimentato nel DNA di certe persone. La vita di Walter McMillian, padre di famiglia e onesto lavoratore, viene distrutta e un’intera comunità gettata nel panico e nell’insicurezza. Interessante notare come Bryan Stevenson, anch’esso nero ma benestante e acculturato, sia comunque soggetto a un trattamento umiliante per lo stesso motivo di avere la pelle di un colore diverso, sottoposto a perquisizioni corporali inusuali e costantemente sottovalutato nell’iter del suo lavoro per il solo fatto di essere nero.

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Il diritto di opporsi è, come facile prevedere, un film molto focalizzato sulla questione razziale, un dramma di denuncia sociale che non ammette un punto di vista differente se non quello dell’avvocato e del suo cliente. Non esiste, dunque, un margine di fictionalizzazione per adempiere ai meccanismi dell’entertainment, non esiste alcun beneficio del dubbio nella vicenda di Johnny D., nessun sospetto, solo un uomo innocente da scagionare. Se questa scelta può in parte sacrificare la portata spettacolare della vicenda, Cretton riesce comunque a tenere ben salda l’attenzione sulla storia concentrandosi su altri elementi, sulla caparbia di un uomo che percorre una strada irta di pericoli e ostacoli, sull’empatia con un condannato a morte che vede ogni tentativo di libertà fallire (magistrale, a tal proposito, e di grande intensità la scena della sedia elettrica). Il diritto di opporsi è un film di maniera, ma è condotto con quel rigore che gli si addice, è avvincente e riesce a creare il giusto trasporto nello spettatore.

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Buona parte della riuscita è anche da attribuire agli interpreti, Michael B. Jordan nei panni del giovane avvocato e Jamie Foxx in quelli del condannato a morte; c’è anche Brie Larson nel ruolo di un’associata allo studio legale di Stevenson che però non emerge più di tanto, invece stupisce per bravura Tim Blake Nelson, nel ruolo dell’accusatore sfregiato di Jonny D., un ruolo piccolo ma che svetta su tutti gli altri.

Il diritto di opporsi sarà nei cinema italiani dal 30 gennaio 2020.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Un film di denuncia ricco di ritmo narrativo.
  • Bravi attori, di quelli che sanno fare la differenza.
  • Una storia poco nota fuori dagli USA ma che tutti dovrebbero conoscere.
  • Un punto di vista unico toglie un po’ di enfasi sulla vicenda.
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