Judy, la recensione
Negli Stati Uniti Judy Garland è una celebrità senza eguali nonostante sia ormai scomparsa da 50 anni, un’icona immortale che ha legato il suo nome a più settori dello spettacolo essendosi distinta nel canto, nel ballo e nella recitazione (vincendo un Oscar nel 1940 e poi candidata per altre due volte). Uno status di celebrità che forse non è vissuto allo stesso modo al di fuori dei confini americani, anche se l’interprete del più famoso adattamento de Il mago di Oz e madre di Liza Minnelli ha guadagnato un posto d’onore nell’immaginario di ogni generazione. Inevitabile, dunque, in periodo da biopic compulsivo come quello che stiamo vivendo, che qualcuno scegliesse proprio la grande Judy Garland per raccontarne onori e glorie, ma anche rimpianti e momenti bui.
Judy nasce dallo spettacolo teatrale End of Rainbow di Peter Quilter, in scena dal 2005, e racconta gli ultimi mesi di vita di Judy Garland, dall’inverno del 1968 all’estate del 1969, quando l’artista ormai intrappolata in una dipendenza da alcool e psicofarmaci, è impegnata in un tour a Londra, una luce in fondo al tunnel di anni e anni di inattività che potrebbe farla tornare in auge e, soprattutto, farle guadagnare qualcosa visto che i vizi e i quattro matrimoni alle spalle hanno fatto si che il suo patrimonio fosse negli anni prosciugato. Ma non è facile per Judy tornare in scena, ritenuta inaffidabile per la sua condotta, sempre poco lucida, non più con la voce di un tempo e, soprattutto, ossessionata dai fantasmi del passato.
Rupert Goold, con un importante passato teatrale e un solo film alle spalle (il thriller True Story con James Franco e Jonah Hill), conduce il biopic su Judy Garland come se stesse mettendo per immagini una pièce teatrale. Il palcoscenico è un po’ il leitmotiv di Judy, che per buona parte si ambienta proprio davanti a una platea, su un palco, dietro le quinte in maniera non dissimile a come un anno fa è accaduto con il biopic su Stanlio & Ollio. La Garland ha passato un’intera vita sotto i riflettori, una vita tanto bella quanto tremenda, che le ha strappato via l’adolescenza chiedendole di annullare progressivamente ogni fase della crescita, schiava dei ritmi dello spettacolo, delle diete, dell’immagine: un sogno per chiunque che si traduce in un incubo per la povera Judy. Tutto questo nel film di Goold non c’è, o meglio è solo suggerito ed evocato rapidamente da alcuni flashback sul passato della Garland che esprimono con efficacia l’origine del “male”.
Judy si concentra invece sulle conseguenze che questa vita anomala ha generato, su una donna insicura schiava dei vizi, incapace di tessere rapporti stabili, solo idealmente genitrice ma incapace di svolgere questo ruolo nei fatti. Un susseguirsi di delusioni e cattiverie che si annullano dietro l’entusiasmo di una coppia di fan che hanno l’onore di ospitare la Garland nel loro appartamento in un momento particolarmente nero della sua fallimentare tournée. Uno dei momenti migliori nel film di Goold forse perché esce dalla dinamica del palcoscenico e indaga l’artista nel suo momento di umanità quotidiana, di affetto reale, quello che le trasmettono due persone comuni e vere in un mondo popolato da squali.
Judy rimane molto sulla superfice, racconta la Garland senza raccontare realmente l’artista, si concentra su un momento specifico rimanendo ingabbiato di una dinamica narrativa che in questi ultimi tempi, tra Bohemian Rhapsody e Rocketman, abbiamo già avuto modo di guardare e ascoltare. In questo spettacolo abbastanza minimal, forse più consono all’estetica del tv movie, si lascia ovviamente apprezzare Renée Zellweger in un’interpretazione di mimesi abbastanza riuscita in cui gioca un ruolo fondamentale anche la sua reale performance canora capace di avvicinarsi molto alla voce della Garland, per di più sporcata e imperfetta come alla fine della sua carriera. Quello in cui la Zellweger convince meno, al di là di un lavoro di mimica e fisico vistosamente impegnativo, è nell’espressività che purtroppo rimane la solita caratteristica dell’attrice che ha dato volto a Bridget Jones, comprensiva di continui e odiosi duck-face, ammiccamenti non richiesti ed eccessi vari.
Insomma, se da una parte Judy si lascia apprezzare per la coerenza d’intenti e per il lavoro di mimesi svolto dall’attrice protagonista, dall’altra finisce per conformarsi pericolosamente all’idea di biopic sul tramonto di un artista che oggi va per la maggiore, con lo svantaggio di una dimensione produttiva più piccina che lo svincola da qualsiasi ambizione spettacolare.
Candidato a due premi Oscar e già vincitore di un Golden Globe, Judy arriverà nei cinema italiani il 30 gennaio 2020 distribuito da Notorious Pictures.
Roberto Giacomelli
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