La casa di Jack, la recensione
Fondatore di un vero e proprio manifesto artistico, apripista di una corrente cinematografica che si fa forte del proprio carattere indipendente e ormai noto provocatore, Lars von Trier ha intrapreso da qualche anno a questa parte un percorso artistico molto coerente e intelligentemente legato a un compromesso tra cinema autoriale ed esplorazione dei generi. L’horror soprannaturale di Antichrist, la fantascienza di Melancholia, l’erotico di Nymphomaniac e ora il thriller/horror di La casa di Jack.
Si tratta, ovviamente, un etichettamento riduttivo per le opere dell’autore danese, che hanno una complessità che trascende lo stesso genere in cui si inseriscono, ma Von Trier dimostra ogni volta di aver “studiato” ed essere, con ogni probabilità, uno spettatore avido ed esperto del cinema di genere con cui vuole cimentarsi, proponendone – a modo suo – tutti i topoi e le fasi narrative basilari.
Questo accade puntualmente, infatti, anche con La casa di Jack (The House That Jack Built, in originale) che porta lo spettatore a prendere il punto di vista di un serial killer, dai media battezzato Mr. Sophistication, attraverso alcune fasi fondamentali del suo percorso omicida.
Il film è costruito come una lunga confessione che Jack/Mr. Sophistication fa a un misterioso individuo di nome Verge, di cui per oltre tre quarti del film sentiamo solo la voce off. L’assassino racconta il suo iter attraverso cinque omicidi, che lui considera “incidenti”: l’uccisione di una insopportabile donna con auto in panne a cui Jack presta soccorso, una incauta donna di mezza età nella cui abitazione Jack si intrufola con l’inganno, una madre di famiglia con prole a seguito durante una scampagnata, la propria fidanzata e un incredibile esperimento pluriomicida ai danni di ben quattro uomini. Ogni fase del suo percorso omicida è costellata da divagazioni, caratteristica del cinema di Von Trier che attraverso esempi concreti e montaggio di materiale di repertorio, porta avanti delle tesi ben precise utili a costruire la contorta psicologia del serial killer. E mai come in questo caso, il regista e sceneggiatore si è ingegnato nel costruire attorno a Jack nevrosi e psicosi che andassero a supportare la sua sanguinosa azione.
Jack è affetto da un disturbo ossessivo compulsivo che lo rende schiavo dell’ordine e del pulito. Capirete che per un serial killer, che è spesso costretto ad agire in furtività e velocità e sporcarsi con sangue in situazioni di fortuna, questo può essere un bel problema. Infatti, Von Trier si diverte a mettere in scena il paradosso del suo personaggio dedicato a questo aspetto della psicosi di Jack un intero “incidente”, con effetti insospettabilmente comici.
Inoltre, Jack adora le sfide impossibili e in alcuni casi è letteralmente ossessionato dal raggiungimento di uno scopo, come nel caso del proiettile utile a trapassare con un solo colpo ben quattro crani. In fin dei conti la stessa anima del film si fonda su una delle sfide impossibili incontro alle quali si avventura Jack e che giustifica il titolo originale dell’opera: costruire una casa perfetta per lui. Jack è un ingegnere, ma il suo obiettivo è agire da architetto e edificare un’abitazione ad hoc per le sue esigenze. Jack vuole essere architetto ma è come se la società avesse scelto per lui il ruolo dell’ingegnere, costringendolo in quelle vesti: secondo una sua stessa osservazione, l’architetto scrive la musica, l’ingegnere si limita a leggerla. E lui vuole scriverla quella musica! Ovviamente questo elemento, messo in pratica dal personaggio stesso, agisce primariamente su un piano puramente metaforico che trova infatti attuazione con delirante espediente finale, ma ben rappresenta anche sul piano della quotidianità il carattere ossessivo di un uomo che vuole raggiungere la perfezione attraverso la strada più tortuosa che possa esserci.
La perfezione, intesa anche come arte, anzi opera d’arte, è un altro dei grandi temi che La casa di Jack tocca. Il protagonista si definisce artista e le sue vittime diventano opere d’arte sotto i suoi colpi, come accade, ad esempio, al volto trasfigurato in osceno ghigno di una delle sue “opere d’arte”. Da qui è abbastanza sottile il parallelismo che viene a crearsi tra lo stesso Jack/artista con il Von Trier/regista, entrambi impegnati nel restituire al mondo la propria arte attraverso un processo creativo estremo, spesso senza essere neanche capiti. E poco conta se l’arte si esprime attraverso le note suonate al piano da Glenn Gould, le spettacolari opere architettoniche di Albert Speer per il regime nazista, oggi rovine, o le stesse immagini dei film di Von Trier che scorrono sullo schermo. L’arte è l’espressione dell’artista ed è tale innanzitutto in quanto volontà di creazione.
Von Trier, da buon provocatore, non ci risparmia immagini crude e scene che sfociano nel gore più estremo e, un paio di volte, perfino nello splatter. L’obiettivo del regista è disturbare e ci riesce perfettamente, almeno in un’occasione in maniera davvero pesante. Leggenda metropolitana vuole che al Festival di Cannes, dove il film è stato presentato, alcuni spettatori abbiano abbandonato la sala in preda al disgusto durante la prima per il pubblico. Sappiamo che si tratta di una notizia montata per far parlare del film, ma non ci stupirebbe comunque se fosse tutto vero perché il film, in effetti, potrebbe urtare la sensibilità di qualcuno.
Nella sua discesa all’Inferno, che ad un certo punto abbandona l’allegoria per diventare tangibile, La casa di Jack richiama alla memoria Henry, pioggia di sangue, cult del cinema thriller estremo diretto da John McNaughton nel 1986. In entrambi i casi si chiede l’immedesimazione con un personaggio sgradevole e privo di empatia e si spinge lo spettatore ad assistere a gesta deplorevoli, a scene disturbanti. Nel caso di Von Trier, prerò, c’è una sorta di riscatto finale per lo spettatore, una catarsi che ha del liberatorio.
Magnifico Matt Dillon, in scena dal primo all’ultimo minuto, in un ruolo affatto facile in cui è chiesto di dare credibilità e particolare spessore a un uomo tremendo: sguardo freddo, totale assenza di emozioni, fermezza e decisione. Probabilmente un ruolo che a Dillon vale tutta la carriera. Nella parte di una delle vittime c’è anche Uma Thurman, che era già comparsa in Nymphomaniac, mente voce e volto di Verge sono affidate a Bruno Ganz, qui nel penultimo ruolo della sua carriera.
La casa di Jack è stato al centro di un insolita bagarre con il visto censura italiano, vedendosi affibbiare il divieto massimo, VM18, sia per la versione integrale – che Videa ha distribuito in poche sale in lingua originale con sottotitoli in italiano – sia per la versione tagliata doppiata in italiano.
Roberto Giacomelli
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