La foresta dei sogni, la recensione

In genere, la maggior parte dei problemi di un film nascono e muoiono a livello di sceneggiatura. Superato questo step, occorrono un buon regista, un cast affiatato, un produttore capace di interferire in maniera sensata e creativa, una troupe che getta il cuore oltre l’ostacolo, l’assenza di vertenze sindacali, bel tempo (chiedere a Terry Gilliam e al suo Don Chisciotte), il festival giusto al momento giusto, un’idea che, in maniera più o meno misteriosa, riesce a smuovere certe corde del pubblico che altrimenti … la quantità di stelle che devono allinearsi, per garantire un risultato dignitoso, è rilevante.

L’elenco di cui sopra è volutamente e necessariamente incompleto.

Uno dei segreti del cinema, a ragione del suo fascino e della sua pericolosità (per chi lo fa si intende) è questa bizzarra imprevedibilità che nasce da una combinazione fra caos furioso e matematica. Non si ha mai il controllo della situazione; almeno, non del tutto. Molto più spesso, è la situazione ad averlo (il controllo). Il che non è un male, nella misura in cui il caso può letteralmente spalancare porte e svelare verità inedite, suggerendo punti di vista, suggestioni e sentimenti che magari, a prima vista, non saltano agli occhi.

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Ora quando, a cavallo fra la fine del 2014 ed il principio del 2015, cominciano a saltar fuori le prime informazioni e qualche sparuta immagine de La foresta dei sogni (titolo originale The sea of trees), l’allerta del cinefilo, in considerazione di quanto detto, avrebbe dovuto restare alta. Tuttavia, è davvero impossibile manovrare con lucidità la marea montante delle aspettative, soprattutto quando il caso allinea così tanto talento, tutto insieme e tutto in una volta.

Un film diretto da Gus Van Sant, a partire da una sceneggiatura inserita nella Black List dei migliori script non ancora realizzati, sorretto da un’idea intrigante, interpretato nientemeno che da Matthew McConaughey, Naomi Watts, Ken Watanabe. McConaughey, ricordiamo, al primo film girato dopo l’Oscar del 2014, splendido coronamento ad una delle resurrezioni cinematografiche più clamorose degli ultimi anni: cosa diavolo poteva andare storto? Magari l’ostinazione di qualche storico del cinema porterà a galla verità controverse sulla lavorazione del film, o piuttosto qualche disputa produttiva che ne ha pregiudicato la riuscita. Per il momento, bisogna attenersi ai fatti, concludere che nulla di tutto questo è accaduto, e dunque intristirci per il risultato finale, abbastanza deludente.

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La foresta dei sogni non è il disastro paventato a Cannes 2015; asfaltato da un’ostilità critica nettissima e impietosa, il passaggio al Festival ha assunto i contorni di un’esecuzione in piena regola. Ad oggi, primavera 2016, non è stata ancora definita un’uscita per il mercato americano.

Il film è imperfetto, traballante sotto un bel numero di punti di vista, ma trattiene qualche motivo di interesse, a cominciare dal carisma e dalla gradevolezza del cast, molto talento che lavora quasi per inerzia, un buon affiatamento fra i due protagonisi maschili, la bella fotografia di Kasper Tuxen, che restituisce la solennità e l’imponenza dello scenario principale del racconto: Aokigahara, letteralmente “foresta dei suicidi”, 35 km quadrati di intrichi boschivi alla base nord–ovest del Monte Fuji, meta prediletta per un numero impressionante di potenziali suicidi, giapponesi e non. Ogni anno, si stima, vengono rinvenuti nella foresta più di un centinaio di corpi, ma ci sono buoni motivi per credere che il numero delle morti effettive sia superiore, e che dunque molti cadaveri non vengano mai scoperti. A rendere ancora più macabro il quadro, un’ipotesi che nasce da un dato oggettivo: l’impenetrabilità della foresta ha spinto a teorizzare che molti dei decessi non siano pienamente intenzionali; magari un potenziale suicida si addentra nei boschi perché vuole morire, poi cambia idea, tenta di uscire, smarrisce la via e, topo in trappola, muore di fame nel tentativo di portarsi in salvo.

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Un’idea di questo genere costituisce lo spunto narrativo del racconto: Arthur Brennan (McConaughey), professionista americano, va ad Aokigahara per morire. Le cicatrici risalgono ad un burrascoso passato matrimoniale, mostrato attraverso una serie di flashback. Tra l’altro, era stata proprio sua moglie a suggerirgli, in previsione del momento finale, di scegliere “il posto perfetto per morire”, da cui la foresta. Capita però che Brennan incroci casualmente sul suo cammino un omologo giapponese (Watanabe) che vinto dalla fame e dalla paura, lo implora di indicargli una via d’uscita. Il resto è abbastanza prevedibile, per lo meno fino alla sopresa (lo è davvero?) finale.

Dirige il film, uno degli autori più importanti ed idiosincratici degli ultimi anni, Gus Van Sant, come già detto, 64 anni, ed una carriera di successo che lo ha visto districarsi fra una marea di variazioni sul tema: ha oscillato fra la provocazione a basso costo (Mala Noche), il successone Academy – friendly (Will Hunting), è stato allucinato (il meraviglioso Paranoid Park) agghiacciante (Elephant), ha avvicinato il biopic progressista (Milk), ed ha realizzato il remake forse più controverso di sempre (Psycho). La sua incapacità fondamentale, in questo film, si ricollega all’impossibilità di sollevare una sceneggiatura che mescola toni e registri emotivi troppo distanti gli uni dagli altri per poter essere accettati con credibilità: una sfida per la sopravvivenza nella prima parte, la più riuscita, cui segue un risvolto spirituale/fantastico che, involontariamente e in maniera paradossale, finisce per svilire l’autenticità dei percorsi di vita e di morte presentati fino a quel momento.

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Una riflessione sulla potenza e la bellezza della vita, a due passi della morte, un percorso di punizione e redenzione viziato da un eccesso di sentimentalismo, incorniciato da una serie di “scene da un matrimonio” piuttosto rigide e poco originali.

Francesco Costantini

PRO CONTRO
  • L’ambientazione, al di là del suo destino sinistro, conserva un certo fascino.

 

  • Tutto quello che ha a che fare con il rapporto fra Brennan e la moglie, suona un po’ stereotipato.
  • Il modo in cui esce di scena il personaggio della Watts, per come è strutturato, molto semplicemente non è credibile.
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