La ragazza senza nome, la recensione

Doverosa precisazione con annessa ammissione di umiltà. Non è un’impresa facile recensire il nuovo film dei fratelli Dardenne, La Ragazza Senza Nome. E questo fondamentalmente per due motivi. Mi spiego meglio: pensiamo prima di tutto alla tormentata vicenda distributiva del film. Presentato come da inveterata abitudine al Festival di Cannes 2016, il film viene accolto dalla stampa con una freddezza davvero inusuale, se consideriamo lo standard fissato nel corso di una pluripremiata (soprattutto sulla Croisette) carriera come quella dei due cineasti belgi. Da qui l’azzardata e allo stesso tempo coraggiosa decisione di rimontare il film, tagliandone tra l’altro sette minuti netti. La versione qui recensita è ovviamente la copia revisionata del dopo Cannes.

Ora, nessun resoconto scritto, di seconda mano, potrà mai sostituire pienamente la verità di un’impressione diretta e dal momento che chi scrive non ha goduto del privilegio di gironzolare per Cannes lo scorso maggio, qualsiasi velleità di paragone fra le due versioni del film, che pure servirebbe ad un’esaustiva comprensione dello stesso, viene abbandonata in partenza. Il fantasma di ciò che è stato e non è più aleggia su questa recensione, pur nella consapevolezza che discussioni di questo genere portano sicuramente più acqua al mulino degli storici del cinema e dei cinefili più accaniti, di quanto non facciano per il grande pubblico.

La ragazza senza nome 1

La Ragazza Senza Nome è la storia della dottoressa Davin, una onnipresente, dignitosa, impacciata e dolce Adèle Hanel, che non apre la porta del suo ambulatorio ad una giovane donna, una notte come tante. Venuta a conoscenza della morte della ragazza, lacerata dai sensi di colpa, Jenny intraprende una tormentata e meticolosa indagine per restituire alla scomparsa la dignità di un nome, di un’identità, brandelli di giustizia negata, e liberare il peso enorme che grava sul suo cuore.

Jean Pierre e Luc Dardenne, campioni del cinema sociale, alfieri di una messa in scena asciutta e rigorosissima, una cura della forma e della sostanza che guarda alla grande lezione del neorealismo, con La Ragazza Senza Nome consegnano un film che nei suoi 106 minuti circa di durata non raggiunge e non eguaglia, nemmeno per un momento e questa è una cosa un po’ impietosa da dire, le vette di radicalità e di potenza (politica e dei sentimenti) di capolavori come Rosetta (Palma d’Oro a Cannes 1999) e L’Enfant (vincitore nel 2005).

La ragazza senza nome 2

Molta carne al fuoco: l’idea della colpa, il senso di responsabilità morale, il diritto all’identità, ad essere riconosciuti, l’attenzione per gli ultimi emarginati, ingabbiata nella struttura narrativa di un thriller, abbozzata nella sua scarna essenzialità. Un thriller senza scatti emotivi, il che è una rarità e anche un problema se vogliamo. A tratti, le necessità del racconto, che seppur tratteggiato lievemente deve molto alla logica di genere, sovrastano l’idea che lo percorre e lo attraversa nemmeno in maniera troppo subliminale.

Eppure, a dispetto delle molte notazioni critiche, c’è molto di valido ne La Ragazza Senza Nome e renderne conto è per l’appunto la seconda ragione per cui recensire questo film in maniera adeguata è affare complicato, a cominciare dalla convincente interpretazione di Adèle Hanel, presente sullo schermo dal principio alla fine del film, senza mai stancare. Il ritratto di una giovane donna che orienta le sue azioni nel solco di una volontà morale ben precisa, ispirata dalla colpa e dalla responsabilità, è tratteggiato con punte di tenerezza e soprassalti di dignità.

La ragazza senza nome 3

Resta il monito lanciato dai fratelli Dardenne, un indice puntato contro l’indifferenza patologica di un mondo che non sa guardare ai suoi margini. Sbiadito ricordo di un cinema che fu? Può anche darsi, ma ciò non toglie che La Ragazza Senza Nome offra allo spettatore coraggioso spunti di riflessione in abbondanza, un forte sentimento di verità e giustizia e uno stile inconfondibile.

Francesco Costantini

PRO CONTRO
Mi ripeto, la convincente interpretazione di Adèle Hanel. Si diceva di un celebre film di Ingmar Bergman, Sinfonia d’Autunno: Bergman che gira un film alla Bergman. Il rischio che si intravede in controluce in questo film (ma qualche scricchiolio si era già avvertito con il precedente Due Giorni, Una Notte) è che il cinema dei Dardenne stia imboccando questa china.
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