L’ultima volta che siamo stati bambini, la recensione

Roma, estate 1943. Siamo nel pieno della Seconda Guerra Mondiale. Mentre le bombe esplodono, mettendo in subbuglio la capitale così come tutta l’Italia, quattro bambini stanno vivendo la più bella estate della loro vita. Sono Italo, benestante figlio di un federale fascista, Cosimo, che ha il padre al fronte e quindi passa le sue giornate ad annoiarsi con il nonno, poi c’è Vanda, una bambina orfana e fortemente credente e infine Riccardo, figlio di un’agiata famiglia ebrea. I quattro passano le intere giornate a giocare alla guerra con fionde e fucili di legno, a stringere patti segreti e a giurarsi amicizia eterna qualsiasi cosa possa accadere. Una mattina come un’altra, tuttavia, Riccardo non si presenta al loro solito punto di ritrovo. Italo, Cosimo e Vanda – complici le informazioni che giungono al padre di Italo – scoprono che Riccardo, insieme a tutta la sua famiglia, è stato prelevato dai nazisti e fatto salire su un treno diretto in Germania, in un campo di concentramento per ebrei. Completamente ignari della gravità della situazione, i tre bambini decidono di partire in un’importante missione segreta: seguiranno i binari del treno fino ad arrivare in Germania, a piedi, convinti di riuscire a convincere i nazisti a liberare il loro amico Riccardo. Sulle loro orme, tuttavia, si metteranno presto anche Vittorio, il fratello maggiore di Italo che è arruolato nell’esercito fascista, e Agnese, una giovane suora che presta servizio nell’orfanotrofio da cui è fuggita Vanda.

Questo è un periodo molto particolare per la commedia all’italiana e lo è per diversi motivi. Da una parte, infatti, complice lo scoppio della pandemia che ha fatto aprire gli occhi a tutti sulla grave condizione del cinema italiano al botteghino, abbiamo assistito ad una notevole battuta d’arresto nella produzione di film che appartengono a questo genere. Se prima del 2020 eravamo ufficialmente invasi dalle commedie (il più delle quali dimenticabili), oggi sembra esserci un filtro maggiore nei confronti di ciò che arriva sul grande schermo (occhio, filtro maggiore non equivale necessariamente a qualità).

Il secondo grande cambiamento – e questo è sicuramente meno positivo del primo – riguarda la scelta degli autori/registi che vengono posti al timone di questi progetti. Negli ultimi tempi, infatti, è in aumento questa moda di far esordire gli attori dietro la macchina da presa. Una tendenza che c’è sempre stata, certo, sia qui in Italia che all’estero, ma in tempi recenti sembra essere diventata quasi una regola. Complice l’ego strabordante degli attori o inquietanti logiche produttive, fatto sta che continua a crescere il numero di pellicole dirette da non-registi. Solo per citare alcuni esempi abbastanza recenti, possiamo ricordare Ride diretto da Valerio Mastandrea, Tapirulàn di Claudia Gerini, Romantiche di Pilar Fogliati, Marcel! esordio alla regia di Jasmine Trinca, Falla girare di Giampaolo Morelli, Sulle nuvole di Tommaso Paradiso (che non è un attore ma rientra nel discorso), L’immortale di Marco D’Amore, Felicità diretto da Micaela Ramazzotti e a fine mese avremo C’è ancora domani che segna il debutto alla regia di Paola Cortellesi. Ovviamente, in questa lista, abbiamo tenuto in considerazione solo le opere prime, tralasciando chi ha già fatto il secondo, terzo o quarto film (e quindi Kim Rossi Stuart, Claudio Amendola, Rocco Papaleo, Edoardo Leo, Marco Bocci, Pietro Castellitto e via dicendo).

Adesso esce in sala L’ultima volta che siamo stati bambini, una commedia storica agrodolce tratta dall’omonimo romanzo di Fabio Bartolomei e che segna il debutto alla regia dell’attore, comico e conduttore Claudio Bisio.

Con oltre quarant’anni di significativa carriera nel mondo dello spettacolo (ricordiamo che ha persino un Oscar in filmografia) e la bellezza di sessantasei anni sul groppone, Bisio è sicuramente un artista che si è guadagnato più di altri quella credibilità utile ad esordire dietro la macchina da presa. Su questo non c’è alcun dubbio. Ed è persino interessante – oltre che coraggioso – il progetto con cui decide di compiere quest’importante passo, L’ultima volta che siamo stati bambini,  ovvero un film con ambizioni decisamente alte e pronte a travalicare quella che potremmo considerare la comfort-zone della commedia.

Perché L’ultima volta che siamo stati bambini non è solamente un film che racconta in modo sognante l’orrore della guerra e delle deportazioni degli ebrei nei campi di prigionia nazisti, ma è anche un film che decide di affrontare questa cruda pagina di Storia spostando il punto di vista su un manipolo di bambini (tutti più o meno sui dieci anni) che vivono tutto come fosse un gioco, come un’audace avventura fra amici. Di quelle che rimangono nel cuore per sempre.

È impossibile pensare che dietro quest’esordio alla regia di Bisio non ci sia stata la volontà di provare a fare ciò che ha fatto Benigni con La vita è bella, ovvero raccontare l’orrore come fosse un gioco, filtrandolo tutto attraverso lo sguardo innocente di un bambino che non ha la più pallida idea di quello che sta succedendo davvero in quei campi di concentramento. Ma se il film che ha fatto guadagnare a Benigni l’Oscar rappresenta una reference abbastanza facile, è simpatico notare che nel film di Claudio Bisio ci sono riferimenti piuttosto evidenti a film come il recente JoJo Rabbit (altro film che deve molto a Benigni), Il bambino con il pigiama a righe ma anche cult intramontabili come I Goonies e – forse più di tutti – Stand by Me (citato già nella locandina).

Perché sostanzialmente L’ultima volta che siamo stati bambini è un coming-of-age che si fonde al cinema d’avventura. Un road movie a tutti gli effetti in cui i protagonisti sono dei bambini destinati a crescere troppo in fretta, ignari d’aver sposato una missione decisamente più grande e pericolosa di quello che immaginano. E quindi il film di Bisio, considerando entrambe le storylines del racconto (quindi quella dei bambini ma anche quella dei due adulti che si mettono sulle tracce dei piccoli), prende di petto il classico schema del road movie e lo rispetta piuttosto fedelmente, con una narrazione che viene scandita da piccoli episodi che porteranno i protagonisti sempre più vicini alla méta, sempre più vicini alla crescita individuale.

Tutto molto bello e nobile, non c’è che dire, peccato solamente che Claudio Bisio non riesce ad avere quella maturità narrativa che – con buona pace di tutti i detrattori – ha avuto Benigni quando ha regalato a tutto il mondo il furbissimo La vita è bella.

Vedendo L’ultima volta che siamo stati bambini, infatti, ci si domanda per quale motivo in Italia si fatica così tanto a fare un film serio ogni qualvolta ci siano dei protagonisti bambini. Come se, siccome i protagonisti hanno dieci anni, allora anche il linguaggio cinematografico adottato debba necessariamente avvicinarsi a quel target lì. Ma davvero si pensa che il target di questo film sia principalmente quello dei bambini (magari delle scuole)? Ed anche se così fosse, davvero c’è qualcuno che ancora crede che i bambini – per essere catturati da una narrazione cinematografica – devono assistere ad una comicità buffonesca e puerile?

L’ultima volta che siamo stati bambini porta in luce un gigantesco problema legato al nostro cinema, ovvero quello che non si conoscono minimamente i gusti delle fasce più giovani. Ma il discorso si fa ancora più grave nel momento in cui gli sceneggiatori di certi film (questo è scritto dallo stesso Bisio insieme al rispettabile Fabio Bonifacci) provano a costruire i caratteri dei protagonisti bambini. Sembra che, crescendo, tutti si siano dimenticati di come i bambini parlano, si comportano, agiscono, pensano e riflettono. Ogni qual volta un film italiano mette in scena il personaggio di un bambino, questo deve inevitabilmente essere puerile, ingenuo, ammantato da un candore inesistente. Se già molti sceneggiatori italiani – come spesso viene sottolineato – non sanno far parlare gli adolescenti, peggio ancora va con i bambini. Perché si ricorre sempre in delineazioni stereotipate, surreali, un modo di raccontare l’infanzia assolutamente ideale e non reale.

E quindi ecco che i più grandi problemi di questo esordio alla regia di Claudio Bisio vengono presto alla luce, ovvero far ricorso ad un linguaggio cinematografico esageratamente ingenuo ed infantile, con situazioni ironiche così tanto costruite e macchiettistiche da far sembrare i giovani protagonisti quasi degli stupidi.

Il film non riesce mai a cogliere quell’ingenuità reale dei bambini, che spesso è mista a sfrontataggine e persino cattiveria, bensì si nasconde dietro ad un narrare puerile che sembra guardare più nella direzione dei progetti scolastici piuttosto che in quella cinematografica. E quindi ci si domanda, avendo come reference film come I Goonies e Stand by Me, e a questi potremmo aggiungere anche la fortunata serie Stranger Things che ha spopolato anche tra le fasce d’età più giovani, come è possibile che non si sia riusciti a carpire proprio quello spirito? Perché non adottare un tono da commedia più ricercato e serioso capace di catturare sia la fascia di giovanissimi (vabbè!) che quella più adulta? Un film del genere, che racconta una pagina di Storia così nera e che termina in un epilogo assolutamente drammatico (e quindi pronto a fare a pugni con il tono generale del film), avrebbe avuto la necessità di sposare un tono utile a catturare un target davvero più ampio.

Peccato, perché poi il film di Claudio Bisio ha anche delle buone frecce nel proprio arco. Tra queste, su tutte, un gruppo di giovanissimi attori protagonisti che sembrano dei veterani del cinema. Vincenzo Sebastiani (Una famiglia mostruosa, Un matrimonio mostruoso), Carlotta de Leonardis (L’arminuta) e Alessio Di Domenicantonio (Pinocchio, DNA – Decisamente non adatti) sono un trio d’attori pazzeschi, capaci di reggere l’intero film da soli e persino un registro emotivo decisamente complesso. Ad affiancarli, tra gli adulti, troviamo l’astro nascente Federico Cesari (Tutto chiede salvezza), la sempre brava Marianna Fontana (Indivisibili), Antonello Fassari e lo stesso Claudio Bisio in un piccolo ruolo ad inizio film.

Insomma, L’ultima volta che siamo stati bambini è un’opera prima che, su carta, si presenta assolutamente coraggiosa ma che nella sua realizzazione ha incontrato non pochi problemi. Specialmente nell’individuazione del tono. Colpisce sicuramente il finale che, malgrado sia esageratamente frettoloso, riesce ad avere quell’efficacia che invece manca a tutto il resto del film. Peccato. Provaci ancora, Claudio!

Giuliano Giacomelli

PRO CONTRO
  • Vincenzo Sebastiani, Carlotta de Leonardis e Alessio Di Domenicantonio sono tre protagonisti eccezionali.
  • La scelta di esordire con un road-movie ambientato durante la guerra e filtrato dalla spensieratezza dei bambini.
  • Il tono del film, troppo buffonesco e infantile, fa perdere prestigio al prodotto.
  • Il cinema italiano non sa raccontare i bambini. E questo è un contro generale, non solo legato al film di Bisio.
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