Pinocchio, la recensione
Quando è stato annunciato che Matteo Garrone avrebbe lavorato a una nuova trasposizione de Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi la reazione istintiva di qualsiasi cinefilo è stata di perplessità. Una perplessità data non tanto dal nome del regista o dall’opera di partenza, ma dalla difficoltà con cui le due cose si potessero legare insieme senza che l’una stravolgesse l’altra. Perché da una parte c’è la favola italiana più famosa al mondo (grazie a Disney) che ha già solcato l’immaginario di diverse generazioni; dall’altra abbiamo uno dei più talentuosi registi italiani che fino ad oggi ha legato il suo nome ad opere crude, nerissime e violente. Chi ha fagocitato chi?
La risposta, incredibilmente, è: nessuno!
Il Pinocchio di Matteo Garrone possiede un equilibrio unico, un perfetto bilanciamento tra la favola collodiana e l’opera cinematografica di un autore dalla firma inconfondibile.
Innanzitutto, la sceneggiatura dello stesso Garrone a cui ha collaborato l’attore Massimo Ceccherini ripercorre con grande fedeltà l’opera di Collodi, saltando inevitabilmente qualche personaggio e qualche tappa ma rimanendo sostanzialmente uguale a Le avventure di Pinocchio. Questo rigore narrativo dà al film quella marcia in più perché avvicina lo spettatore al racconto instradandolo in territori famigliari, rendendo per immagini episodi noti e dando corpo a personaggi ormai archetipici: guardando Pinocchio troviamo materializzarsi il libro esattamente come tutti noi lo abbiamo immaginato. Allo stesso tempo, però, notiamo la mano infida e crudele di chi ha già dato corpo agli incubi di Gianbattista Basile con Il racconto dei racconti, e oltre alcune atmosfere lugubri troviamo senza filtri anche gli orrori che, di tanto in tanto, Collodi ha sparso nella sua storia. Il bosco degli assassini e l’impiccagione di Pinocchio, l’intenzione di Mangiafuoco di alimentare il suo falò con il corpo dei burattini, la trasformazione in asinello che ricorda tanto quella in licantropo di Un lupo mannaro americano a Londra. Tanti segnali di una predisposizione al macabro che rendono palese lo sguardo orrorifico e la fascinazione per il fantastico propria di Garrone.
Però c’è da dire che, fondamentalmente, Pinocchio è un’opera destinata a tutti, grandi e bambini, con quell’afflato morale proprio della favola di Collodi, perfettamente votato a impartire una serie di giusti insegnamenti al “bambino ribelle” che è in ognuno di noi. Una continua fuga dalle responsabilità con conseguenze disastrose, ampiamente anticipate dalla “coscienza” del burattino rappresentata dal Grillo Parlante (qui interpretato da un fantastico Davide Marotta) e dalle quali la protettiva Fatina (interpretata da Alida Baldari Calabria e Marine Vacht) riesce a tirar fuori Pinocchio. E così il burattino viene rapito dal burbero Mangiafuoco dallo starnuto facile (Gigi Proietti in un piccolo ma pregnante ruolo), viene truffato dal Gatto e la Volpe (Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini, magnifici), attirato con l’inganno nel Paese dei Balocchi, venduto a un circo e poi divorato dal Pesce Cane. Una lunga avventura in cui ogni pericolo rappresenta la strada sbagliata imboccata da Pinocchio in un bivio, vicino a realizzare il suo sogno di diventare bambino e allo stesso tempo capace di allontanarsene sempre di più.
Garrone è incredibilmente abile nel gestire il materiale di Collodi, nel dargli una forma, perfettamente a suo agio con il genere fantasy. Soprattutto per quest’ultimo aspetto è aiutato da un team di effettisti bravissimi che riescono a dar vita a tutte le bizzarre visioni di Collodi: c’è un lavoro di visual effects incredibile applicato ad effetti prostetici e meccanici di grande impatto per un risultato praticamente unico per una produzione italiana. Contribuiscono tantissimo alla riuscita visiva ed emozionale del film anche la bella fotografia di Nicolaj Brüel, che gioca con colori caldi e tonalità desaturate, e una suggestiva colonna sonora di Dario Marianelli capace di sottolineare a perfezione le avventure del protagonista.
Se oggi salutiamo Pinocchio come uno dei migliori film italiani dell’anno è anche grazie a una scelta oculata degli attori e a una direzione impeccabile: sicuramente a distinguersi per umanità, tenerezza e intensità è Roberto Benigni nel ruolo di Geppetto che riesce a catturare quell’alone paterno e quella propensione al sacrificio che il personaggio richiede… in questo ricorda molto il magnifico Nino Manfredi del Pinocchio televisivo di Luigi Comenciani, fino a questo momento la trasposizione di Pinocchio più fedele e riuscita. Molto bravo anche il piccolo Federico Ielapi, capace di trasmettere empatia nonostante il pesantissimo trucco ligneo (3 ore di applicazione giornaliere) che ne mina la riconoscibilità.
Matteo Garrone continua nell’impresa per nulla facile di internazionalizzare la cultura italiana, di rendere appetibile al grande pubblico mondiale tratti topici del Belpaese e stavolta lo fa scegliendo la via più ardua, confrontandosi con un genere insolito per il panorama italiano, il fantasy per famiglie. Pinocchio è un’opera produttivamente importante, sontuosa, un unicum per la nostra cinematografia, un film emozionante, coinvolgente, visivamente potente e capace di trasformare in immagini l’immaginario di Collodi meglio di come abbia fatto fino ad oggi qualsiasi film tratto da Le avventure di Pinocchio.
Roberto Giacomelli
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