Omaggio a Wes Craven: Benedizione mortale

Benezione mortale (USA, 1981) non è certamente tra i film più famosi di Wes Craven, né uno dei suoi capolavori: potremmo definirlo un “Craven minore”, anche se è meglio evitare definizioni del genere perché ogni film è a sé (di qualsiasi regista si parli) e non bisogna necessariamente confrontarlo con le opere maggiori. Deadly Blessing (questo il titolo originale) è il quinto lungometraggio di Craven: se escludiamo due opere poco conosciute come The Fireworks Woman (La cugina del prete), girato con lo pseudonimo Abe Snake, e il film per la televisione Summer of Fear, prima d’ora il regista aveva realizzato due tra i suoi film più riusciti, che sarebbero diventati col tempo due pietre miliari del new-horror, cioè L’ultima casa a sinistra e Le colline hanno gli occhi. Siamo quindi ancora nella prima fase della sua lunga filmografia, prima della sua opera più celebre Nightmare (1984) che fa da ideale spartiacque.

IL FILM

Dopo i due crudelissimi horror precedenti, Craven dirige un film meno sanguinario, ma che mantiene un certo trait-d-union per l’ambientazione rurale: prosegue cioè nell’esplorazione degli aspetti più spaventosi della provincia americana, prima di trasferirsi in contesti urbani, con uno stile che – pur essendo girato nel 1981 – ricorda ancora parecchio i seventies; più che un film minore, potremmo definirlo un film di transizione, un esperimento con cui l’autore si confronta con nuovi espedienti narrativi, lo slasher in particolare.

Rispetto ai primi due film di Craven, qui fa irruzione inoltre l’elemento soprannaturale, pure se confinato quasi solo nella conclusione: un po’ come nei vecchi film di Roger Corman (Il pozzo e il pendolo in primis), ma anche nella tradizione europea (pensiamo ai numerosi thriller gotici), Craven costruisce la vicenda mantenendola continuamente in bilico fra soprannaturale e razionale, e depistando continuamente lo spettatore fino a una doppia soluzione.

Se le campagne americane erano state prima invase da feroci serial killer e da famiglie di mostruosi cannibali, ora la minaccia viene da qualcosa in apparenza più mite ma in realtà altrettanto inquietante (e proprio su questa opposizione gioca il fattore perturbante): una comunità di Ittiti  (da non confondere con l’omonimo popolo asiatico dell’antichità), una confraternita religiosa simile ai mormoni (ma ancora più severa, viene detto nel film) che vive in un piccolo villaggio lavorando i campi e con una rigidissima educazione religiosa, un forte senso del lavoro, ossessione per il peccato, isolamento, diffidenza verso gli estranei e rifiuto della modernità – un microcosmo quasi fermo al secolo precedente.

Jim Schmidt (Douglas Barr) è un giovane ittita che ha sposato Martha (Maren Jensen), una ragazza non appartenente alla sua comunità religiosa, e proprio per questo è stato ripudiato dalla famiglia per ordine del severo padre Isaiah (Ernest Borgnine). Jim e Martha vivono isolati dagli altri, in una casa di campagna dove si dedicano a lavorare la terra, mentre il villaggio è in preda al terrore di Incubus, un demone appartenente alla loro mitologia. Sia Martha sia Faith, una loro vicina che vive insieme alla madre, sono additate come le “donne di Incubus”, dunque portatrici del Male e delle disgrazie. La profezia sembra avverarsi quando Jim muore nel granaio, inspiegabilmente schiacciato dal trattore. Per starle vicine, giungono da fuori due amiche di Martha, Lana (Sharon Stone) e Vicky (Susan Buckner), ma altri oscuri eventi si susseguono: lo sventurato William (Michael Berryman) viene pugnalato e fatto trovare impiccato nel granaio, e Martha sfugge per poco alla morte dopo che qualcuno ha introdotto un serpente nella sua vasca da bagno. La comunità continua ad attribuire la colpa al demone, ma il nemico è più vicino di quanto si possa pensare.

DE-MITIZZAZIONE DEL SOGNO AMERICANO

L’evoluzione cinematografica di Craven è per certi versi paragonabile a quella di un altro maestro del new-horror, Tobe Hooper: anche lui ha iniziato negli anni Settanta rappresentando gli aspetti più folli e crudeli della provincia americana, con il monumentale Non aprite quella porta ma anche con Quel motel vicino alla palude, per poi prendere strade diverse. Benedizione mortale, insieme ai primi due film di Wes e al successivo (ma meno riuscito) Le colline hanno gli occhi 2, si inserisce in questo filone dell’America “rurale e selvaggia”, quasi una de-mitizzazione del sogno americano, una messa in scena che dietro l’horror nasconde gli aspetti più brutali e inquietanti di un mondo in apparenza civile.

Come si diceva, Benedizione mortale è però anche qualcosa d’altro, simile per certi versi ai film nominati (la comunità isolata, la follia omicida, la provincia agreste) ma che al contempo sperimenta altre forme. Lo stile abbastanza “grezzo” con fotografia e location un po’ da “drive-in” fa molto atmosfera anni Settanta, in cui però si intravede già qualcosa di successivo – le ragazze isolate e in pericolo saranno un topos dell’horror e thriller dei decenni successivi (ecco l’elemento slasher a cui si accennava). In più, c’è la minaccia dell’elemento soprannaturale a rendere complessa e intricata la storia – in questo caso si fa riferimento a Incubus, un demone della mitologia ittita che sale dagli abissi per punire i peccatori. Se si rivede il film una seconda volta, con gli occhi di poi sembra evidente che tutto (o quasi) ciò che accade sia spiegabile razionalmente e che dietro agli omicidi agisca un essere umano: eppure alla prima visione questo non è così scontato, talmente la storia è densa di mistero e di suggestioni esoteriche.

In sintesi, Benedizione mortale è un horror rurale in stile seventies, un thriller dalle venature slasher con tanto di assassino da scoprire e un horror con elementi soprannaturali, il tutto ben mescolato: anche nei suoi film minori, Craven sa dirigere e costruire (fra gli sceneggiatori c’è pure lui) storie robuste. Il regista si conferma inoltre un maestro nella creazione dell’atmosfera e della suspense, supportata sia da ambientazioni e location (i campi assolati, le case isolate, il villaggio sperduto), sia dalle musiche (composte da James Horner, il futuro musicista del Titanic di Cameron): nella colonna sonora spiccano brani cadenzati con vocalizzi gravi e ossessivi che restituiscono un’opprimente e inquietante sensazione misterica, un po’ in stile canto gregoriano o Carmina Burana di Carl Orff, per intenderci; da notare anche il frequente utilizzo delle inquadrature in soggettiva che mostrano l’incedere della misteriosa entità verso le proprie vittime. La fotografia alterna scene notturne con i campi e le strade arse da un sole abbacinante: nel cinema horror, non solo la notte può far paura, ma anche i paesaggi diurni se ben raffigurati – pensiamo per esempio a Mirror di Ulli Lommell o Grano rosso sangue di Fritz Kiersch.

INTERPRETI E PERSONAGGI

La comunità Ittita riesce a risultare altrettanto spaventosa che le famiglie deviate viste negli altri film: gli austeri membri sempre vestiti con abiti e cappelli neri, pronti a usare anche la violenza quando serve per punire chi trasgredisce le severissime regole, creano un forte senso di minaccia e claustrofobia – abbinata all’isolamento in cui si svolge tutto il film. Assolutamente azzeccati soprattutto due personaggi: il patriarca Isaiah, interpretato dalla vecchia gloria di Hollywood Ernest Borgnine, il cui volto torvo e marcato è reso ancora più oscuro da un’ispida barba grigia, e il povero William Gluntz, interpretato dall’inconfondibile Michael Berryman. Un attore che non ha certo bisogno di presentazioni, un caratterista diventato suo malgrado un’icona del cinema horror a causa di una malformazione genetica che lo rende completamente calvo e con un viso quasi deforme: se per Craven è un attore-feticcio – lo troviamo anche nei due Le colline hanno gli occhi e in Invito all’inferno – lo ricordiamo anche in Italia per il suo ruolo impagabile nel crudelissimo Inferno in diretta di Ruggero Deodato, e negli ultimi anni compare di frequente negli horror di Rob Zombie. In Benedizione mortale interpreta un ittita semi-demente, un po’ lo “scemo del villaggio” inquietante ma innocuo, che compare tacciando la giovane Faith di essere la donna di Incubus e che purtroppo viene ucciso a mezz’ora scarsa di film (peccato, perché quando si ha un caratterista così bisogna tenerlo in scena il più possibile), per poi far sobbalzare la sventurata Sharon Stone (e lo spettatore) quando il suo corpo impiccato cala improvvisamente nel granaio.

Proprio la Stone, futura diva di Hollywood, all’epoca non ancora famosa e qui in una delle sue prime performance, è fra le protagoniste del film, formando un terzetto con la Jensen e la Buckner: non sono ancora semplicemente le “belle in pericolo” che spesso vedremo negli anni Ottanta, ma personaggi di spessore ciascuno con le proprie caratteristiche. Maren Jensen è la protagonista, moglie affettuosa e incinta, che vive con un certo turbamento la situazione del marito e che nel corso della vicenda vedremo affrontare in modo il più possibile razionale i misteriosi avvenimenti. Sharon Stone ha già il suo tipico aspetto da femme-fatale mangiatrice di uomini, ma Craven gioca sul contrasto facendole interpretare (benissimo) il ruolo di una ragazza terrorizzata e dai nervi fragili. Susan Buckner infine è la più sentimentale, e la vedremo stringere una relazione con il giovane John Schmidt, fratello del defunto Jim e figlio di Isaiah – rapporto naturalmente osteggiato dalla famiglia di lui: la coppia sarà protagonista di una memorabile scena in stile slasher quando vengono uccisi in auto dalla minaccia invisibile, pugnalato lui e bruciata dentro la vettura lei.

I MOMENTI CULT

La suddetta sequenza è di sicuro fra le più memorabili del film, ma non è l’unica: fra gli omicidi è la migliore, quella realizzata con più ritmo, mentre l’uccisione di Berryman è girata in modo troppo sbrigativo; in altre circostanze, per esempio la morte del marito nel granaio, Craven gioca più sulla dilatazione dei tempi. Abbastanza lunga e claustrofobica è la sequenza con Sharon Stone prigioniera nel granaio, fra porte e finestre che si chiudono, ragni (presenza costante, simbolo di questa rete che opprime i protagonisti), un Boogeyman che spunta nel nulla e – gran finale – il corpo di Berryman che penzola impiccato. Sempre la Stone è protagonista di un incubo dove due mani le tengono aperta la bocca e un ragno le penetra dentro (effetto semplice ma impressionante). Del resto, Craven ha sempre avuto un debole per la rappresentazione degli incubi, come dimostrerà magistralmente in Nightmare; inoltre, una fra le scene più celebri del suo capolavoro – l’artiglio di Krueger che spunta dalla vasca – sembra essere preannunciata qui dalla scena in cui Maren Jensen è inquadrata nella vasca da bagno e dall’acqua spunta un serpente.

TEMATICHE

Altrettanto sferzante è il discorso del fanatismo religioso, contro cui Craven sembra scagliare un j’accuse. Non sappiamo quanto ciò sia volontario, ma di sicuro alcuni momenti non possono lasciare indifferenti: la famiglia di Jim che assiste in disparte al suo funerale, la rigida divisione in chiesa fra uomini e donne, la cugina imposta come moglie, ma soprattutto le punizioni inflitte da un cattivissimo Borgnine (pensiamo a quando frusta le mani del suo figlioletto per aver peccato) mostrano un puritanesimo estremista in tutta la sua crudezza, quel puritanesimo contro cui John si ribella fermando la mano del padre che lo sta picchiando (e facendosi così cacciare da casa).

Abbastanza scioccante e anti-conformista è la rivelazione dell’identità dell’assassino, una donna che si rivela essere un uomo – dunque c’è anche il tema della bisessualità e travestitismo: curiosamente, questo colpo di scena assomiglia molto da vicino a quello di un piccolo grande thriller del 1973, Un rantolo nel buio di William A. Fraker (chissà se Craven l’ha visto e vi si è ispirato?). Un elemento discutibile, ma comunque affascinante, è il delirio conclusivo. Dopo che l’assassino è stato smascherato e ucciso in un finale al cardiopalma, e dopo che quindi sembra non esserci nessun demone nei paraggi, ecco che avviene l’imprevedibile: Martha rimane intrappolata in casa, le appare il fantasma del marito che la avverte del pericolo, e il pavimento si apre facendo emergere Incubus che la risucchia negli abissi. Il demone si manifesta come una mostruosa creatura realizzata con un make-up in pieno stile anni Ottanta, avvolta in una nube rossa e con un effetto vagamente trash: di per sé la sequenza funziona abbastanza, ma si ha l’impressione di un finale posticcio e gratuito, realizzato giusto per sorprendere lo spettatore e aggiungere qualcosa in più a una storia finora perfetta. D’altra parte, è anche vero che il soprannaturale è comunque presente nella giovane ittita Melissa che ha percezioni extrasensoriali e che, alla fine dei conti, l’apparizione finale di Incubus potrebbe anche essere un’allucinazione di Martha.

Davide Comotti

VN:F [1.9.22_1171]
Valutazione: 0 (da 0 voti)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.