Room, la recensione

Room non è semplicemente il titolo del film, ma rappresenta tutto il mondo che Jack, il piccolo protagonista, conosce a cinque anni: lui e la madre, Joy, sono rinchiusi da anni in una stanza da un uomo che chiamano Old Nick. Joy (Brie Larson) sembra essersi rassegnata a questo destino lugubre, finché un giorno, grazie al figlio, capisce che è arrivato il momento di lottare e fuggire. Peccato che anche la realtà esterna presenti a sua volta degli ostacoli da abbattere…

Dopo lo stravagante esercizio di stile rappresentato da Frank, Lenny Abrahamson è tornato dietro la macchina da presa per dedicarsi ad un progetto a prima vista più “convenzionale”. Dico convenzionale non perché voglia sminuire la storia in sé, la quale non può in nessun modo lasciare insensibili, ma perché altri registi al posto di Abrahamson avrebbero, probabilmente, realizzato un film più focalizzato sulla fuga di madre e figlio dalla stanza, spingendo sul pedale del melodramma. Al contrario, l’autore di Room non ne ha bisogno, gli basta esporre i fatti nudi e crudi per lasciare lo spettatore stretto in una morsa di angoscia, almeno durante la prima parte del film; infatti esso sembra essere diviso nettamente in due fasi, ognuna a suo modo singolare, tanto che potrebbero esistere l’una senza l’altra.

Rm_D40_GK_0056.RW2

Invero la prima sezione descrive la quotidianità di madre e figlio nella stanza, dove l’attonito orrore che si prova per la loro condizione si mischia all’ammirazione per lo stoicismo di Joy e per la premura che mette nel ricreare un ambiente quanto più possibile “normale e sicuro” per Jack. Tutto ciò procede di pari passo con un crescendo di tensione che esplode al momento della fuga; da lì in poi il film si assesta su un mood più lento, in cui la macchina da presa indugia su soggettive di Jack, i cui occhi scoprono questo nuovo mondo sconfinato.

L’impressione che si riceve dalla seconda parte è che fosse questa ad interessare realmente ad Abrahamson: in particolare si intuisce la sua volontà nell’indagare la possibile reazione delle vittime di tali tragedie, una volta tornate al sicuro nelle proprie case. È probabile ritenere che siano domande che ci facciamo in molti, quando veniamo a conoscenza di vicende del genere, non per morbosità quanto per una sana e partecipe curiosità verso l’essere umano.

ROOM_img2

La risposta che sembra darsi il regista, in questo caso, è che il ritorno alla “normalità” dei protagonisti sia arduo e costellato di sofferenze quasi quanto gli anni passati nella Stanza; di fatto anche questa sezione si compone perlopiù di interni, in modo da rimandare l’idea di uno spazio (quasi) altrettanto asfissiante. I paparazzi appostati fuori dalla casa dei genitori di Joy, il giudizio semplicistico della giornalista che si premura di etichettare i comportamenti della protagonista, tutto rende quest’atmosfera invivibile e claustrofobica. Il messaggio è che non basta certo tornare ad una vita regolare per essere felici e dimenticare lo strazio patito in sette, lunghissimi anni.

Dal canto suo anche Jack, dopo il nuovo inizio, sembra avere alcune difficoltà, che però affronta egregiamente. Abrahamson si concentra, in questo stadio, soprattutto su di lui: ad esempio l’uso reiterato delle sue soggettive è atto a mimare la venuta al mondo di un neonato. Dato che sarebbe stato troppo inverosimile immedesimarsi nella testa di un bebè, l’autore usa lo “stratagemma” narrativo del bambino che vede la luce e cresce in una stanza per cinque anni, senza sapere nulla del mondo esterno: tutto il film sembra prendere forma per arrivare a questo scopo. La Stanza, invece, sembra simboleggiare il ventre materno; paragone questo da prendere con le dovute distanze, poiché il motivo per cui Joy e Jack sono stati rinchiusi là dentro non ha nulla del calore di un grembo materno. Ma la correlazione tra i due elementi non pare così azzardata quando Jack, verso la fine del film, chiede di poter rivedere la Stanza: dopotutto non è una teoria comprovata a dire che spesso i bambini desiderino tornare nel grembo della madre?

Rm_D32_GK_0080.RW2

La cinepresa, dal canto suo, si comporta più come una lente d’ingrandimento o un microscopio dove i soggetti di ricerca non sono cellule ma esseri umani; tutto ciò non porta però a un coinvolgimento statico o freddo della platea, che anzi si sente indubbiamente toccata, seppur in maniera differente, da entrambi le fasi di Room.

Room ha fatto guadagnare a Brie Larson un Oscar come Migliore attrice protagonista e arriverà nei cinema italiani il 3 marzo grazie a Universal Pictures.

Giulia Sinceri

PRO CONTRO
  • L’abilità di Abrahmson nel tratteggiare una delicata e straziante vicenda umana, senza cadere in un buonismo convenzionale.
  • L’analisi, né troppo fredda né troppo emotiva, del difficile ritorno a casa di Joy e Jack: le loro reazioni sono osservate attentamente, ma senza morbosità, in modo da coinvolgere il giusto lo spettatore.
  • Lentezza un po’ eccessiva che si accumula lungo la seconda parte del film.
  • Non è una pellicola per cuori deboli.

 

VN:R_N [1.9.22_1171]
Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
VN:F [1.9.22_1171]
Valutazione: 0 (da 0 voti)
Room, la recensione, 8.0 out of 10 based on 1 rating

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.