Truth, la recensione

La decima Festa del Cinema di Roma apre in bellezza con l’esordio al lungometraggio di James Vanderbilt, famoso per essere lo sceneggiatore dietro film come Zodiac e The Amazing Spider-Man. Eppure, nonostante la natura di debutto, Truth è a prova di bomba, un meccanismo perfetto che funziona come un orologio. E proprio come in un orologio, anche nel film tutte le parti, essenziali ma interdipendenti, si incastrano perfettamente: di fatto la storia in sé risulta estremamente coinvolgente e la sceneggiatura la esalta, senza contare l’ottimo uso del montaggio (che risulta analitico, ma allo stesso tempo perfettamente funzionale nel suscitare la giusta emozione nel pubblico) e i due magnifici protagonisti del film: Cate Blanchett e Robert Redford.

I fatti narrati in Truth sono basati su un episodio realmente accaduto: nel 2004 la redazione di 60 Minutes, programma di punta della CBS News nonché caposaldo dell’inchiesta giornalistica televisiva, decide di indagare sui presunti favoritismi che George W. Bush avrebbe ricevuto per andare alla Guardia Nazionale anziché in Vietnam. Purtroppo, dopo la messa in onda del programma, la redazione verrà sottoposta a una vera e propria “macchina del fango”, di cui faranno le spese soprattutto la produttrice Mary Mapes (Cate Blanchett) e il presentatore Dan Rather (Robert Redford).

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Durante la visione di Truth è impossibile non pensare ad un altro gioiello del genere, ovvero Tutti gli uomini del presidente di Alan Pakula (basato sullo scandalo Watergate che provocò le dimissioni dell’allora presidente Nixon). Non a caso uno dei protagonisti del film di Pakula è proprio Robert Redford: anzi, fu lui stesso a insistere che i due giornalisti responsabili dell’inchiesta sul Watergate scrivessero un libro tratto dalla vicenda, in quanto interessato ad acquisirne i diritti cinematografici. Dunque Redford non si tira indietro quando si tratta di narrare storie scomode sul grande schermo, anche se nel film di Vanderbilt risulta più defilato di quanto non lo fosse in quello di Pakula.

Di fatto il regista si concentra particolarmente sul personaggio di Mary Mapes, sia perché essendo la produttrice aveva maggiori responsabilità riguardo all’inchiesta, sia perché la sua vita privata finisce per rimanere coinvolta nel ciclone che si abbatte sulla CBS News. Sebbene il passato difficile di Mary sia un tasto facile per guadagnarsi la simpatia dello spettatore, Vanderbilt si allontana dal segnale di “buonismo alert”, conscio che il suo compito è offrire non solo uno spaccato di storia aderente alla realtà, ma soprattutto indagare in maniera rigorosa su ciò che accadde. Esattamente ciò che fece anche la squadra di giornalisti di 60 Minutes.

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Solitamente le pellicole appartenenti a questo genere seguono uno schema più canonico, che può andare da un impianto narrativo molto verboso ad un approccio eccessivamente scientifico, che contribuisce a una resa filmica grigia e piatta. Non è certo il caso di Truth, che rappresenta un ottimo equilibrio tra puro intrattenimento e valore sociale; infatti la visione del film è anche un’occasione per rileggere la realtà di oggi. La società odierna è abituata “all’amichevole invasione” di internet nella stampa televisiva e giornalistica, ma nel 2004 era una grande novità: nel caso Rathergate, la redazione di 60 Minutes presentò nel corso della puntata “incriminata” dei documenti, naturalmente verificati da alcuni periti, che comprovavano la loro indagine. Eppure dei blogger ne contestarono l’autenticità e questa fu la prima volta in cui è accaduta una cosa simile; da allora in poi la televisione e i quotidiani si sono abituati pian piano ad andare di pari passo e talvolta ad essere superati dalla marcia incessante di Internet. Se da un lato risulti un bene, poiché grazie al web si può accedere ad una miriade incontenibile di informazioni, dall’altro esso è veramente troppo manipolabile, come il pubblico a cui si rivolge, del resto: mutuando le parole della Mapes nel film, è facile buttare la verità nella mischia affinché tutti se ne scordino. Invero la bufera scoppiata dalla storia dei documenti mise in ombra il vero cardine della vicenda, ovvero la presunta negligenza di George W. Bush, e questa modalità di depistaggio è indubbiamente utilizzata copiosamente nel mondo dell’informazione di oggi.

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Bisogna pur ammettere che la lezione di giornalismo di Vanderbilt mostra anche il labile confine tra verità e faziosità: nonostante la storia su Bush fosse quasi sicuramente vera, la Mapes e gli altri giornalisti si fecero prendere da un precoce entusiasmo e non costruirono un caso inattaccabile su tutti i fronti, a dispetto della loro professionalità e buona fede. Questo va a favore del regista, il quale dimostra ancora di più il suo metodo dettagliato e combaciante alla realtà dei fatti.

Truth risulta attuale come non mai anche perché si colloca come l’ideale punto di connessione tra Tutti gli uomini del presidente e la serie televisiva The Newsroom.

Tirando le somme, Truth non è solo una magistrale lezione di cinema, ma anche di giornalismo; la ciliegina sulla torta è la splendida performance di una Cate Blanchett in stato di grazia.

Giulia Sinceri

PRO CONTRO
  • Il debutto di Vanderbilt rappresenta una magistrale lezione di cinema e giornalismo.
  • Cate Blanchett e Robert Redford regalano due prove attoriali formidabili.
  • Truth è moderno e attuale, un ottimo punto di connessione tra intrattenimento cinematografico e film-denuncia.
  • Nessuno.
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