Se la strada potesse parlare, la recensione
Forte dell’inaspettato Oscar portato a casa dal suo Moonlight nel 2017, il regista Barry Jenkins torna alla carica, con più mestiere e maggiore ambizione per raccontare al “suo popolo” e al mondo intero una storia d’ingiustizia, amore e sensibilizzazione verso un argomento che sembra essergli particolarmente a cuore, così come all’odierno establishment cinematografico americano: il razzismo verso la comunità afroamericana. Questa volta la base da cui partire è tanto celebre quanto rischiosa perché Jenkins adatta uno dei romanzi più celebri per un’intera generazione di afroamericani, Se la strada potesse parlare di James Baldwin.
Il romanzo è stato scritto nell’America ancora profondamente razzista a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 per veder la luce nel 1974 e Jenkins decide giustamente di contestualizzare la sua storia proprio a quel periodo, quando la ferita per l’assassinio di Malcom X e Martin Luther King erano ancora aperte, gli scontri di Detroit ben vividi nella mente degli americani e tra bianchi e neri non sembrava correre buon sangue.
In questo scenario storicamente e socialmente carico di tensione, Jenkins racconta l’amore, un amore puro, pulito e ricco di empatia che si consuma tra Fonny e Tish, due ventenni di colore cresciuti insieme ad Harlem, New York. Quando Tish scopre di essere incinta, i due ragazzi danno la notizia alle rispettive famiglie e, nonostante l’ostilità della mamma di Fonny, le famiglie accettano di sostenere la decisione dei due di crescere un bambino. Ma succede un imprevisto: Fonny è accusato di uno stupro che non ha commesso e la ragione sembra essere la discussione che ha avuto con un poliziotto bianco alcune sere prima. Impotente di fronte all’autorità che lo ha bollato come colpevole, Fonny finisce in carcere e Tish, oltre che portare avanti la gravidanza da sola, fa di tutto per scagionare il suo amato.
Adottando il linguaggio più classico del melò, quello che ti porta ad empatizzare con i protagonisti, ad affezionarti a loro e sperare in un happy end, Jenkins riesce a padroneggiare perfettamente il materiale che ha a disposizione dimostrando che la lezione di Moonlight è stata utilissima per una crescita artistica e una presa di consapevolezza stilistica. Se la strada potesse parlare, infatti, è l’altra faccia di Moonlight, il completamento – più mainstream e, quindi, per un pubblico più ampio – di un discorso che si concentra sulla gioia di vivere in quanto tale, nonostante le difficoltà di una vita particolarmente dura che sembra voler mettere i personaggi costantemente alla prova.
Jenkins ci racconta una storia quanto più classica possibile, di quelle che abbiamo ascoltato dozzine di volte, ma lo fa bene, cerca di limitare la retorica (comunque presente) e adagiarla sul piano più strettamente emozionale. A questo gli è utilissima la bella fotografia di James Laxton, che aveva già lavorato a Moonlight (anche lì c’ero uno studio sulle tonalità molto ricercato), calda, spesso notturna, satura di gialli, quasi a voler sottolineare la solarità dei due ragazzi. Poi c’è una particolare predilezione per i primi piani: Se la strada potesse parlare è un film fatto quasi esclusivamente sui volti dei personaggi. Gli sguardi, i sorrisi, i dettagli… tutto porta all’immersione, come se lo spettatore dovesse entrare in sintonia con Tish e con Fonny conoscendoli fino al più piccolo dettaglio.
Scelte artistiche che sanno valorizzare un’opera che in mano al primo “yes man” di Hollywood avrebbero potuto dar vita a un film anonimo, un polpettone sentimentale privo del minimo trasporto. Invece non è così.
Stephan James (Race – Il colore della vittoria) e, soprattutto, la quasi esordiente Kiki Layne sono molto in parte e hanno quella tenerezza e quella caparbia indispensabili per la riuscita dei loro personaggi. Ma in Se la strada potesse parlare troviamo anche una bravissima Regina King, che interpreta la combattiva mamma di Tish, una donna moderna che sostiene la figlia in ogni sua scelta e la accompagna nella ricerca della verità.
Candidato a tre premi Oscar e già vincitore di un Golden Globe, Se la strada potesse parlare è il classico film che si sedimenta nella mente dello spettatore. Non colpisce immediatamente, ma sa farsi apprezzare col tempo, grazie a quelle sottigliezze autoriali che riescono ad elevarlo al di sopra della massa dei drammi a sfondo razziale, che ultimamente hanno preso piede in maniera massiccia.
Roberto Giacomelli
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