Silence, la recensione
Esistono due Martin Scorsese: da una parte c’è il guru del gangster movie, regista di capolavori come Quei bravi ragazzi e Casinò, dall’altra l’esteta della Fede, capace di segnare l’immaginario cinematografico con opere potenti come L’ultima tentazione di Cristo e Kundun. Il suo ultimo film, Silence, si inserisce in questa seconda categoria e sembra quasi un ideale trait-d’union tra le due precedenti pellicole, dal momento che affronta il tema della Fede trattando due religioni: il cristianesimo e il buddismo. Si tratta, però, di un’opera fortemente ambigua che costruisce una sorta di sfida, cristianesimo vs buddismo, che sconfina nell’ostinazione umana, nell’infinita stupidità di chi fa dell’ottusa prepotenza il proprio credo.
XVII secolo. I missionari gesuiti portoghesi Sebastian Rodrigues (Andrew Garfield) e Francisco Garupe (Adam Driver) si dirigono alla volta del Giappone per cercare padre Christovao Ferreira (Liam Neeson), loro mentore, di cui non si hanno più tracce da quando è stato catturato dall’inquisitore Inoue (Isei Ogata). In Giappone, infatti, i signori feudali e i Samurai stanno cercando di sradicare il dilagante cristianesimo arrestando e torturando chi cerca di diffondere la religione occidentale e costringendo i fedeli all’apostasia, pena la morte.
Partendo da un testo spirituale come Silence, romanzo scritto nel 1966 da Shusaku Endo, Scorsese compie un viaggio imponente e diversamente epico nella mente di un fedele, un padre gesuita che deve difendere con le unghie e con i denti la propria fede cercando anche di diffondere la sua dottrina. Il film comincia come una missione di salvataggio, una sorta di Salvate il soldato Ryan immerso nel Giappone del 1700, con due padri gesuiti che decidono di intraprendere un viaggio alla ricerca del loro maestro scomparso: non spaventano le ammonizioni della Chiesa, il pericolo a cui vanno incontro, la possibilità di avventurarsi in una missione senza esito positivo. È la Fede a guidarli e li condurrà verso quella che loro considerano la giusta direzione, che è anche un’occasione per continuare l’impresa di diffusione del cristianesimo iniziata dal loro mentore. A guidarli c’è Kichijiro, un vagabondo sfuggito dal suo Paese dopo lo sterminio della sua famiglia in seguito alla loro conversione al cristianesimo. Un personaggio chiave, ricco di insicurezze e contraddizioni, perfetto simbolo della condizione umana di ieri e di oggi, spesso meschina ma sempre votata alla sopravvivenza.
Rodrigues e Garupe sapevano a cosa andavano incontro, ma probabilmente non immaginavano una situazione così delicata, in cui la persecuzione dei cristiani è simile a quella che i cristiani stessi hanno attuato in epoca medievale. Torture sempre più elaborate e fantasiose, sia fisiche che psicologiche, spargimenti di sangue cruentissimi che assumono la forma di una questione di principio piuttosto che di reali convinzioni religiose. I signori feudali vedono invase le proprie terre, derubati delle proprie genti, corrotte da un’altra cultura. E la condizione umana è racchiusa tutta in una questione di prepotenza, dove Dio sembra escluso dai giochi e usato solo come espediente per imporre la superiorità degli uomini.
In mezzo a una attualissima guerra di culture, prima che di religioni, ci sono però due personaggi puri, i due padri gesuiti che si avventurano inconsciamente in una missione che ha tutte le parvenze di essere una “Rogue One”. Rodrigues e Garupe credono in quello che fanno, per loro la Fede è importante ed è nel personaggio interpretato da Andrew Garfield che risiede l’anima di un film che cammina costantemente lungo il confine che separa il sacro dal profano. Rodrigues è lo spirito cristiano, una figura cristologica (anche nell’aspetto, che trasfigura quello di Gesù in un momento di puro delirio) che reinventa il percorso del Cristo verso un esito inedito.
Martin Scorsese si serve dei suoi collaboratori di sempre (Rodrigo Prieto alla fotografia e Dante Ferretti alla scenografia, in primis) per intraprendere un viaggio estetico di assoluto valore. I 160 minuti di durata di Silence, sicuramente non essenziali per raccontare l’epopea della Fede così come era pensata da Shusaku Endo, scorrono senza mai pesare perché Scorsese ha il senso del ritmo e sa fotografare quel “silenzio” del titolo senza mai far tacere la sua narrazione. Giusto la chiusura dà la sensazione che si stia abusando in prolissità, che si stia andando oltre il necessario, con un epilogo che, seppur perfetto a chiudere il cerchio, offre solo un di più.
Incredibile prova attoriale per l’ex Spider-Man Andrew Garfield che offre un’interpretazione intensa e credibilissima, ma di gran valore anche i comprimari Adam Driver e Liam Neeson, nonché i giapponesi Isei Ogata, Yôsuke Kubozuka e Shin’ya Tsukamoto, che a sorpresa ha un bel ruolo che ne conferma le capacità attoriali oltre che quelle registiche che tutti conosciamo.
Probabilmente non ci troviamo dinnanzi al film più rappresentativo della carriera del regista italo-americano, ma Silence è un’opera che sintetizza perfettamente la sua anima spirituale, nonché un film forte visivamente e narrativamente, che non abbandona lo spettatore per giorni.
Roberto Giacomelli
PRO | CONTRO |
|
|
Lascia un commento