Venezia 71. Ghesseha (Tales), la recensione
Nell’Iran contemporaneo si intrecciano le vicende di uomini e donne di età e classi sociali differenti.
Operai rimasti disoccupati, un tassista, infermiere, dirigenti. L’occhio della camera cattura e ci mostra momenti della loro vita quotidiana, delineando il profilo di un paese in cui alla crisi economica spesso si affianca una mentalità ancora chiusa, segnata da un rapporto non paritario tra i generi e da un forte attaccamento alla tradizione religiosa.
Ghesseha (Tales), opera dell’acclamata regista iraniana Rakhshan Banictemad è un film di denuncia contro
lo sfruttamento, la corruzione e l’indifferenza, ma che, al contrario della maggior parte delle pellicole di questo genere, non rinuncia, a tratti, a fare dell’ironia, concedendosi anche momenti leggeri e commoventi.
La struttura per microstorie, al contempo forza e debolezza del film, lo rende meno immediato per lo spettatore costretto a mantenere una particolare concentrazione per riuscire a ricostruire i collegamenti tra i vari personaggi.
Se da un lato infatti contribuisce a trasmettere il senso del caos in cui versa il paese, dall’altro la visione risulta a tratti frammentaria, con protagonisti e situazioni la cui funzionalità tende a perdersi man mano che la storia avanza.
In particolare il personaggio del regista il cui scopo sembra inizialmente essere quello di collante tra le varie situazioni, si “perde” nel marasma delle vicende, lasciando l’impressione di una frase disarticolata e incompiuta.
Il film riesce comunque nel suo intento anche grazie a delle interpretazioni di alto livello. È indubbio però che per una maggiore comprensione delle vicende, sarebbe necessaria una maggiore conoscenza del contesto storico-culturale del paese.
Susanna Norbiato
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